lunedì 14 agosto 2017

coi loro occhi

Il Piccolo ha imparato a camminare. Quando siamo partiti muoveva qualche passo incerto spostandosi da un sostegno all'altro. Ora, se la musica lo merita, è anche in grado di fare piroette. Ha sopportato l'arrivo di tre nuovi denti senza piangere. Ha imparato a chiamare le sorelle (per ora servendosi del nome della Grande per entrambe, cosa che fa arrabbiare la Media ogni volta) e, con moderazione, ad assaggiare qualche piatto che non sia l'italica pasta. Chi l'ha visto tornare lo trova diverso da quand'è partito, ma diversi siamo un po' tutti.
Per la Grande il momento più interessante è stato il pomeriggio a Khndzoresk, il villaggio scavato nella roccia che abbiamo visitato nei presi di Goris. Pochi giorni dopo, la Grande ha passato un'ora e mezza ad ascoltare la storia del Nagorno Karabakh, raccontata in inglese dall'appassionata guida di un museo di Stepanakert, e ora parla della guerra fra armeni e azeri con una competenza da analista. 
Entrambe, sia la Grande sia la Media, hanno provato a guidare la Niva su una strada sterrata e deserta. Per la Media è stato quello il momento più bello del viaggio, oltre naturalmente alle serate sulle giostre. Ma guidare un'auto vera, con tanto di famiglia a bordo, è ovviamente meglio dell'autoscontro.
La Mamma e il Papà sono rimasti colpiti da una lingua affascinante e incomprensibile, dalla storia travagliata, dalle bellezze di un Paese lontano dal turismo di massa. Hanno avuto, soprattutto, il privilegio di vedere il viaggio con gli occhi di tre bambini. Perché è vero che essere genitori, a casa come in viaggio, è una fatica immensa. È vero che bisogna cercare le stanze più grandi, smacchiare l'impossibile, avere sempre un cerotto a portata di mano. Ma è insieme ai nostri figli che tutto ha più senso. Dunque grazie a tutti e tre, che ancora assecondate le follie di Mamma e Papà. Grazie per non aver chiesto come mai voi boccheggiate di caldo mentre i vostri coetanei sono sotto un ombrellone; per tutte le volte che avete indicato una mucca, un asino, una coccinella; per le domande sulla guerra, per le domande senza parole. 
E vi prego, non dite alla pediatra della Coca Cola...

domenica 13 agosto 2017

il comandante senza armi

sabato 12 agosto 2017
Yerevan
Partiamo per Kiev con l'aereo delle 15.30. Da lì voloremo su Milano. Inizialmente pensavamo di trascorrere la mattinata al vernissage per qualche acquisto. Invece andiamo a Yerablur, il cimitero militare di Yerevan, a salutare i caduti del Nagorno Karabakh. Quando le chiediamo come arrivarci, la ragazza alla reception dell'ostello non ci crede: Sono due anni che lavoro qui - aggiunge - e mai nessun viaggiatore mi ha chiesto di Yerablur. È un posto da armeni.
Ovviamente prendiamo la frase come un complimento. Vogliamo rendere omaggio alla tomba di Monte Melkonian, una specie di Che Guevara armeno, sconosciuto al mondo ma recentemente diventato il nostro mito. Monte era un figlio della diaspora, nato e vissuto in California. Aveva studiato archeologia e parlava otto lingue. Non aveva una formazione militare, ma ha guidato un contingente di circa quattromila uomini nella resistenza per il Nagorno Karabakh contro gli azeri, che erano molti di più e meglio armati. Monte aveva posto regole ferree sul rispetto del nemico e sull'uso delle armi, lui che non portava nemmeno la pistola addosso, che non fumava, non beveva e quando poteva insegnava ai bambini. È morto poco prima che la guerra finisse, ucciso in circostanze mai chiarite, in un villaggio azero abbandonato. Secondo l'uso armeno, sulla lapide c'è il suo viso a grandezza naturale, e il nome scritto in corsivo: Monte. Sotto quel nome la Media depone una piccola rosa, raccolta sul vialetto: diversamente da qual che ci aspettavamo, non ci sono venditori di fiori alle porte di questo cimitero pieno di ragazzi.
Poco lontano ci fermiamo alla lapide di Gurgen Margaryan. Nel 2004, a 25 anni, poco dopo la laurea in Ingegneria, Gurgen aveva prestato il servizio di leva; conseguito il grado di sottotenente dell'esercito, era stato inviato a Budapest per partecipare ad un corso internazionale di lingua inglese organizzato dalla NATO. Dormiva nella sua stanza quando è stato ucciso a sangue freddo, a colpi d'ascia, da un pari grado azero, agli occhi del quale Gurgen aveva una colpa imperdonabile: essere armeno. L'assassino, inizialmente condannato all'ergastolo in Ungheria, ha poi avuto l'estradizione in Azerbaigian, dove è stato accolto come un eroe e rapidamente graziato. Il programma a cui entrambi partecipavano si chiamava "Partnership for peace".
La storia di Monte, il comandante senza armi, appassiona la Grande e la Media. Ma quella di Gurgen, massacrato senza motivo, con un odio freddo e feroce, le sconvolge: - Mamma - chiede la Grande - ma allora potrebbe succedere a chiunque, no? Anche a noi...
- No, amore. A voi no. C'è sempre la mamma a proteggervi.
- Mamma, ma tu sei magra come uno stecchino...
- Non importa. Potrei difendervi da chiunque.
Le vedo rasserenarsi. Per ora questa risposta è sufficiente. Che bello.

venerdì 11 agosto 2017

la fonte dell'eterna giovinezza

Yerevan
La pistola ad acqua ci ha aspettato per tutto questo tempo. L'aveva dimenticata la Media, nell'ufficio del noleggio auto, all'indomani del festival delle secchiate per strada. Oggi noi abbiamo a malincuore restituito la macchina e la Media ha riavuto la pistola, che era stata conservata in un cassetto.
L'ultima cena armena la facciamo in un ristorante tipico che avevamo sperimentato tre settimane fa, e il nostro ultimo ostello ha il cortile interno in comune con un meccanico. Praticamente, a circa due metri dall'ingresso della nostra stanza c'è il ponte elevatore.
Oggi siamo riusciti a fare due cose importanti: spedire le cartoline per gli amici della Media e della Grande (ce le siamo portate appresso, già affrancate, da Stepanakert, senza aver trovato - almeno fino ad oggi - un ufficio a cui consegnarle) e vedere l'ultimo, meraviglioso monastero: si trova non lontano da Yerevan e si chiama Geghard, che significa "monastero della lancia" perché pare che vi fosse conservata la lancia che trafisse il costato di Cristo in croce, portata qui dall'apostolo Taddeo. Il complesso attuale è del Duecento, ma pare che il nucleo originale sia più antico. All'interno della chiesa principale scorre una fonte che pare mantenga giovani in eterno (ovviamente mi sono affrettata a berne qualche litro - ma anche la Grande e la Media erano interessate) e la costruzione è in parte scavata nella roccia, cosa che rende l'interno ancora più fresco, e infatti il Piccolo dorme beato. Intorno, nella pietra della montagna, sono state scavate numerose minuscole celle per monaci, circondate da decine di croci intagliate o appoggiate sulle pietre. Immaginare un giaciglio in una fessura di roccia mi impressiona:
- Avete visto, ragazze, dove vivevano questi monaci? Chissà come facevano a resistere qui dentro in inverno...
Grande: - Ma dove mangiavano?
- Nel monastero c'era un refettorio. Dormivano nelle grotte e poi andavano a mangiare insieme.
Grande: - E allora non avevano bisogno di altro. Mangiavano e dormivano, dov'è il problema?
- Ehm... Grande, va bene che anche noi siamo degli eterni pellegrini senza bagaglio, ma insomma adattarsi ad un giaciglio nella roccia...
Grande (con l'aria di chi spiega un'ovvietà ad uno scolaro duro di comprendonio): - Ma una volta erano più bassi di noi. In questa cella il monaco poteva starci disteso, e magari mettersi addosso una bella coperta spessa. Se uno mangia in compagnia e dorme al caldo di cos'altro ha bisogno?
- Ehm... Media, tu cosa dici?
Media (senza esitazioni): - Io sono contenta perché adesso rimarrò giovane per sempre. Ma qui non ci vivrei mai. Posso chiedere alla nonna di prepararmi l'insalata di polpo quando andiamo a trovarla?

giovedì 10 agosto 2017

la questione dei confini

Gyumri
Per una volta fieri di essere italiani. Oggi, andando verso il lago Arpi, ai confini con la Georgia, siamo passati da Ashotsk, un villaggio su una piana a circa 2000 metri di altitudine. Qui sorge l'unico ospedale gratuito dell'Armenia, il Redemptoris Mater, che è anche uno dei pochi a garantire standard di cura paragonabili a quelli occidentali. È stato donato dalla Caritas italiana nel 1991, dopo uno spaventoso terremoto che aveva flagellato tutta l'Armenia del nord, con decine di migliaia di vittime. L'ospedale coordina varie decine di ambulatori (e anche alcune scuole) sparsi fin nei villaggi più remoti della zona e garantisce assistenza domiciliare. È diviso in reparti per un centinaio di posti letto, esegue duemila operazioni chirurgiche all'anno ed ha un reparto maternità con circa una nascita al giorno. Entriamo per lasciare una donazione (l'ospedale oggi è gestito dalla Caritas italiana insieme a quella francese, e tuttora sopravvive grazie alle offerte) e siamo accolti da suor Noel, vicedirettore della struttura. Il direttore è padre Mario, un camilliano italiano, ma al momento è impegnato. Le bambine sono incuriosite dalle scritte in italiano che indicano i nomi dei reparti. Siamo felici di aver lasciato un piccolo contributo, intavoliamo una discussione sull'importanza dell'assistenza sanitaria gratuita (anzi: sul fatto che in giro per il mondo non è affatto scontato averla) e proseguiamo.
La vicinanza del confine con la Georgia, oltre alla recente passione della Media e della Grande per la carta stradale dell'Armenia (che ormai leggono meglio di me) innesca di nuovo il dibattito sulla questione dei confini, su cui ci arrovelliamo da qualche giorno. Mi rendo conto di non aver dato - almeno dal punto di vista delle bambine - risposte esaurienti, e quindi loro continuano a farmi le stesse domande. Il dialogo seguente si è già svolto, salvo poche variazioni, almeno una decina di volte, con la Grande, con la Media, con entrambe.
- Mamma, ma un armeno può entrare in Georgia?
- Sì, amore.
- E in Azerbaigian?
- No. Ve l'ho spiegato. I confini con l'Azerbaigian sono chiusi per la questione del Nagorno Karabakh.
- Ma forse se passasse prima in Georgia...
- Ma avrebbe comunque il passaporto armeno. Non potrebbe entrare in Azerbaigian. Anzi, ora che abbiamo il visto del Nagorno Karabakh sui passaporti, in Azerbaigian non ci possiamo entrare neanche noi.
- Ma che senso ha che il mondo sia diviso in tanti pezzi? Come fanno a decidere che noi non possiamo entrare su quel pezzo? Noi vorremmo solo vedere, mica fare niente di male...
- Ma non è questione di far bene o di far male...
- Ma allora i confini sono come muri? Ma come si fa a considerare come un muro una cosa che non si vede nemmeno?
Già. Come si fa.

mercoledì 9 agosto 2017

caviale e pomodoro

Gyumri
Non si può dire che si sia davvero adattatato alla cucina armena, ma il Piccolo durante il viaggio si è lasciato andare a diversi esperimenti e ha cambiato più volte dieta. I primi giorni, probabilmente temendo che così lontano da casa il cibo fosse avvelenato, non ha mangiato sostanzialmente nulla. La cosa suona ancora più strana se si considera che a Yerevan (appunto i primi giorni) eravamo in un appartamento con cucina ben fornita. Proprio per favorire l'ambientamento del Piccolo cucinavamo grandi paste con pomodoro appena scottato, le stesse che mangiamo a casa. Però, chissà perché, in viaggio la pasta al pomodoro non gli andava più. Vinto dai morsi della fame, ha successivamente ripiegato sulla dieta "pane e patatine fritte". L'idea è più o meno agli antipodi rispetto al concetto di "cucina sana" ma abbiamo preferito non andare per il sottile e lasciargli mangiare quel che gli pareva, ponendoci il solo obiettivo di chiudere la parentesi alla fine del viaggio. Lui, tuttavia, deve essersi accorto che così non andava bene, e nei giorni successivi è diventato fruttariano. Non mangiava nulla a parte la frutta. Il bello è che gettava con sdegno per terra le patate e il pane, che fino al giorno prima erano state il cibo eletto. Nei giorni fruttariani il Piccolo ha mostrato una spiccata predilezione per pesche e uva. Quest'ultima ha avuto effetti deleteri sui suoi movimenti intestinali (ovvero: gli è venuta la diarrea) e quindi si è cambiato registro. In tutta questa girandola ci sono stati due punti fermi, uno in negativo e l'altro in positivo; quello in negativo è stato l'uovo: un alimento facile da trovare, economico ed energetico, ma il Piccolo non ne ha mai voluto sapere. Strapazzato, alla coque o come frittata, il risultato è stato sempre lo stesso: rifiuto netto. Peccato. Il punto fermo in positivo è stata la Coca Cola: gliene abbiamo dato un sorso quasi per caso (più che altro per vedere le facce buffe che avrebbe fatto) ed è stata una rivelazione. Il Piccolo la adora e la beve a grandi sorsi. Ama anche le altre bibite-spazzatura (la Fanta, per esempio) e non disdegna l'acqua gassata. Ho smesso di farmi domande su questo mistero, e lui continua beatamente a sorseggiare le bibite del Papà (io personalmente la Coca Cola la detesto). L'altro giorno si è perfino lanciato in un'inedita merenda a base di Coca Cola e more: fuori dal monastero di Haghpat c'erano alcune anziane che vendevano bicchieri pieni di frutti di bosco per pochi spiccioli, e la Famiglia in Cammino non si è fatta pregare. Più recentemente il Piccolo ha adottato un regime misto a base di pasta, riso e frutta, ma questa sera ha fatto una nuova eccezionale scoperta: il caviale. Siamo stati in un ristorante di pesce famoso in tutta l'Armenia. Si tratta in realtà di un gigantesco allevamento, che si trova alla periferia della città e dove le vasche sono disposte a formare laghi e fiumiciattoli, in mezzo ai quali si trovano i tavoli. Abbiamo ordinato il caviale giallo, uno dei piatti forti del locale, e ne abbiamo fatto assaggiare una punta al Piccolo. Si è innamorato all'istante, tanto da chiederne altri cucchiaini con gesti eloquenti. Ha trovato inoltre perfetto l'abbinamento con i pomodori a fette che in quel momento stava mangiando. Temo che a casa dovrò faticare per riportarlo ad un regime alimentare accettabile...

martedì 8 agosto 2017

kachkar e rondini

Haghpat
La Famiglia in Cammino è in preda ad un'incontenibile passione per i monasteri armeni. Oggi abbiamo visitato quelli di Haghpat e Sanahin, che hanno più di mille anni. Non si tratta di singole costruzioni, ma di complessi irregolari e cresciuti nei secoli, con l'aggiunta di più edifici appoggiati l'uno all'altro. Hanno altari completamente spogli, pavimenti resi irregolari dalle lapidi antiche, croci e incomp rensibili scritte in armeno scolpite un po' ovunque. Il Piccolo è il primo estimatore, perché i monasteri sono ovviamente in pietra, con mura spesse, e quindi dentro fa un bel fresco e si sta in penombra: l'ideale per il sonnellino. Oggi, al monastero di Haghpat, lo abbiamo parcheggiato con passeggino vicino al portone principale. Lo abbiamo ritrovato nella stessa posizione, con l'espressione beata di chi finalmente si sta godendo il sonno dei giusti. In tutto il viaggio il Piccolo ha sofferto il caldo, di giorno e di notte. Per fortuna ha potuto fare qualche bel sonnellino nei monasteri (dove ultimamente cerchiamo, per quanto sia faticoso e scomodo, di portarlo col passeggino e non con lo zaino, proprio perché possa dormire). 
Il rituale prevede che le donne entrino negli edifici sacri a capo coperto, e quindi solitamente all'entrata sono a disposizione dei foulard per le visitatrici. Dopo un primo momento di disorientamento (Mamma, perché le donne devono coprire i capelli e gli uomini no?) la Grande e la Media si sono lanciate nel gioco con entusiasmo. Scelgono i colori più sgargianti (oggi sono rimaste deluse perché tutti i foulard a disposizione erano bianchi), se li accomodano vezzosamente sulla testa, si aiutano a vicenda ad indossarli. A me l'idea di mettermi in testa (e soprattutto di far mettere alle bambine) dei pezzi di stoffa usati da mille altre persone, e chissà quando lavati l'ultima volta, fa un po' di ribrezzo (il pidocchio è sempre in agguato - pensiero che cerco ogni volta di scacciare - ma non ci riesco mai), e quindi ho un po' di difficoltà a giocare alle principesse. Ma è certamente un mio problema. 
Per la Grande e la Media, altra grande attrazione sono le rondini, che nidificano a decine nelle navate, e quindi ogni ingresso in chiesa è salutato da un pigolare continuo dei piccoli che chiedono da mangiare. Le bambine osservano rapite i becchi aperti, nei nidi, in attesa del cibo. Io temo ogni volta che mamma rondine mi faccia la cacca in testa (e mi copro bene col foulard per limitare eventuali danni), ma è certamente anche questo un problema mio. 
Ultimo grande motivo di interesse sono i ceri. Qui si usano ovunque candele alte e sottili, di cera gialla. Ovviamente il divertimento di accendere la fiammella e posizionare il cero nella vaschetta di sabbia è massimo, condito con quel po' di paura di bruciarsi che rende tutto più interessante. 
Io e il Papà siamo attratti da banalità come l'architettura, il contesto storico, i bassorilievi. Troviamo spettacolari i kachkar, lapidi intagliate con il motivo della croce, che sono un'espressione artistica tipicamente armena. Ma vogliamo paragonare una pietra intagliata con la magia di un nido di rondine o di un sonnellino al fresco?
Siamo tutti appassionati di monasteri. Ognuno, però, ha la sua prospettiva. 

lunedì 7 agosto 2017

il seduttore di cameriere

Haghpat 
Ama le cameriere. Bionde o more, giovani o anziane, quando le vede va in visibilio. Anche perché loro di solito ricambiano. Fanno carezzine, offrono piccoli snack e insomma lo trattano con tutti i riguardi. Soprattutto gli sorridono, sempre, sfoderando spesso un bel luccichio da denti in oro giallo, che a quanto pare in Armenia sono di gran moda. Dal canto suo, il Piccolo si scatena ed esibisce un vasto repertorio: balla muovendo le spalle su una musica immaginaria (o non immaginaria, in base al locale), batte le mani e lancia piccoli urletti. La comparsa della cameriera è accolta, sempre e comunque, come un'epifania. Va precisato, in effetti, che in Armenia i tempi di attesa al ristorante sono biblici (solitamente il personale è decisamente poco rispetto agli standard europei) e quindi anche gli altri componenti della Famiglia in Cammino sono soliti lanciare occhiate speranzose e languide in direzione della porta della cucina. Ma l'atteggiamento del Piccolo è ai limiti del patetico: segue le cameriere con lo sguardo, le chiama (di solito con l'appellativo di "bimba!" - giuro che è vero) e le guarda come se ogni volta avesse avuto un colpo di fulmine. Nonostante il distacco che ostenta, sospetto che il Papà sia segretamente orgoglioso, anche se forse preferirebbe un po' di selezione. Noi donne osserviamo il tutto con sufficienza e guardiamo ossessivamente l'orologio, solitamente in preda ai morsi della fame. Stasera 52 minuti di attesa...

domenica 6 agosto 2017

vita contadina

Getik
Abbiamo abdicato a qualsiasi regola di una corretta alimentazione. Oggi i bambini hanno mangiato nell'ordine: minuscole pere, grandi come caramelle e altrettanto dolci, che avevano appena raccolto; piccoli cetrioli, anche quelli appena raccolti. Formaggio artigianale. Chicchi di grano tostato e zuccherato, che è un dolce tipico armeno. Poi, insieme alla nonna di 92 anni, hanno macinato a pietra dell'altro grano tostato (ogni pietra pesava 30 chili) e hanno preparato dei dolcetti con zucchero e burro. Il Piccolo li ha particolarmente apprezzati. Gli abbiamo però impedito di bere il latte appena munto, cosa che invece ha fatto la Media, leccandosi con trasporto le mani subito dopo faver munto la mucca. La nostra giornata contadina  è stata particolarmente intensa, oltre che punteggiata da surreali conversazioni mute con cellulari e traduttore. Sarebbe certamente più rapido e gratificante parlarsi sul serio, ma anche l'uso intensivo della tecnologia ha degli aspetti divertenti, ed è l'unico modo per capirsi almeno un po'. Oggi, a colazione, Lilit (che ha il ruolo di padrona di casa di questa numerosa famiglia) è riuscita a spiegarmi che le uova erano state strapazzate insieme ad una parte del formaggio che le bambine avevano preparato. Mi ha anche detto che nel piattino sul tavolo non c'erano olive, come mi era sembrato, ma noci raccolte acerbe (il traduttore dava "imberbi"), faticosamente sbucciate e trasformate in marmellata. Mi ha chiesto come facessero le bambine a conoscere il genocidio armeno (è la prima volta, tra l'altro, che in questa struttura vengono dei bambini) e ha raccontato che questa piccola valle è popolata in gran parte da armeni fuggiti dall'Azerbaigian. Il turismo responsabile per loro è una risorsa importante, infatti più famiglie disposte ad affittare stanze si sono messe in rete per partecipare al progetto, coordinato da Artine, una delle sorelle di Lilit. Oltre a seguire la campagna, Lilit è maestra eleme ntare nella scuola del paese.Concordiamo sul fatto che sia "il lavoro più bello del mondo", quindi lei si mette all'opera con la Grande e la Media. Tira fuori il materiale di scuola e comincia una lezione montessoriana ("pedagogo piace sempre fare" esce sul traduttore). Le ragazze sono entusiaste: scrivono i loro nomi, contano ossessivamente fino a cinque, ripetono più volte i pronomi personali. Il pomeriggio inizia con la lavorazione del formaggio. La mamma e la nonna di Lilit, con la Grande e la Media, lo tagliano a pezzi, lo immergono in acqua calda per ammorbidirlo e lo trasformano in fili e trecce, dal sapore simile a quello della mozzarella. Anche il Piccolo partecipa al gioco: indica il formaggio, ne prende dei pezzi e se li infila in bocca, succhiandoli come spaghetti. Si aggira per il giardino in cerca di mele e pere cadute dagli alberi. Osserva rapito la nonna che alimenta il fuoco per tostare il grano e letteralmente impazzisce per i dolci armeni. A sera, oltre a puzzare di stalla, anche lui è lurido, stanco ed eccitato. Lo trattengo a stento, altrimenti credo che parteciperebbe  volentieri perfino al brindisi molto alcolico degli uomini di casa...

sabato 5 agosto 2017

per fortuna c'è il traduttore

Getik 
La Grande e la Media stanno facendo il formaggio. Armeggiano in cucina insieme alle donne di casa e preparano l'impasto, che deve riposare per dodici ore prima di essere lavorato a pasta filata. Il Piccolo non si unisce alla preparazione: è molto impegnato a spostare le proprie scarpe e le mie da un lato all'altro della stanza. E quando ha finito di spostarle da un lato, le riprende e le sposta dall'altro.
Siamo in una casa di turismo rurale: una famiglia di contadini di montagna mette a disposizione alcune stanze del proprio appartamento, ed è previsto che gli ospiti partecipino alle attività di casa: domani le bambine finiranno di preparare il formaggio, macineranno il grano e parteciperanno alla mungitura delle mucche. È un progetto di turismo sostenibile che nasce per sostenere le attività della zona: anche se siamo a due passi dal lago Sevan, grande attrazione turistica, questa è una valle molto povera. 
Tutto molto interessante, anche se organizzare le attività di domani è stata un'impresa, perché ovviamente in questa famiglia parlano solo armeno. Di solito troviamo più veloce (e divertente) spiegaci a gesti, ma questa volta ricorriamo alle meraviglie di Google traduttore. Questo rende tutto un po' surreale (io e la padrona di casa ci parliamo stando in silenzio, solo mostrandoci i cellulari col contorno delle bambine che ridono) e complica spaventosamente la situazione; l'italiano e l'armeno hanno evidentemente strutture molto diverse, e quindi dal traduttore spesso escono mostri. Esempio. Domanda mia: 
- Cosa possono fare le bambine domani?
Risposta: - Cosa piace? (E fin qui ci capiamo)
- Vorrebbero provare varie attività
- Siamo in condizione di sparare il grano 
- Non capisco...
- La granaglia bruciata
- ...
Oppure:
- A che ora faranno il formaggio?
- Formaggio di filo
- ...
Ripensandoci, non sono affatto sicura di aver capito il programma di domani.

venerdì 4 agosto 2017

in macchina in Armenia

Vardenis
Ovviamente, poiché siamo una famiglia numerosa, cerchiamo di viaggiare contenendo i costi. In più, come dice la Media, è intelligente usare la macchina che hanno tutti. Così se si rompe tutti la sanno aggiustare. 
Ci piace anche l'idea di essere, per quanto possibile, come i locali, e quindi abbiamo noleggiato una Lada Niva bianca, che qui è nettamente l'auto più diffusa. Io non l'avevo mai sentita nominare. È una specie di vecchia Fiat 127, solo molto più alta, perché è un fuoristrada. Il Papà è fiero del fatto che ha le marce ridotte e il blocco dei differenziali (vai a sapere che significa), che sulle strade armene pare siano essenziali. Io dei differenziali non so nulla (fortuna che l'esame della patente l'ho già passato) ma in effetti riconosco che siamo andati senza problemi su strade su cui non mi sarei avventurata nemmeno a dorso di asino. Si tenga presente che il concetto armeno di "strada bianca" è ben diverso da quello europeo. E spesso la "strada bianca" non è una romantica variante: è l'unica opzione. Naturalmente la Niva non ha l'aria condizionata, e quindi giriamo sempre con i finestrini abbassati. Il che fa molto "auto decappottabile" perché dentro sembra di prendere il volo. D'altronde noi "vecchia generazione" abbiamo passato tutti l'infanzia senza l'aria condizionata in macchina, e siamo ancora vivi per raccontarlo. Anzi, io con la 127 di mio padre ho attraversato più volte l'Italia per arrivare in Sicilia, e sono ancora viva per raccontare anche questo. A differenza della 127, la Niva non ha quei bei sedili di plastica nera, che facevano sudare il sedere solo a guardarli, il che ci pare già un ottimo passo avanti. Il bagagliaio invece è lo stesso, ma tanto a noi piace viaggiare leggeri. La dotazione è completata da un seggiolino per il Piccolo modello super-basic, senza imbottitura, durissimo e non reclinabile. Quando il Piccolo si addormenta, praticamente implode. 
Viaggiare in auto in Armenia è piuttosto rilassante, perché il traffico è scarsissimo. Bisogna stare solo attenti alle mucche, che sono tantissime, sbucano ovunque a tutte le ore e spesso non sono accompagnate da un guardiano umano. Semplicemente la sera tornano a casa da sole, non sempre seguendo percorsi che facilitino il passaggio delle auto. In Armenia si usa affiancare le lapidi funerarie a bordo strada (che in effetti si vedono anche da noi) con l'installazione permanente, tipo piazzola di sosta, di tavolo e sedie da pic-nic. Le aree di sosta sono in effetti per la maggior parte vicine alle lapidi, e quindi anche oggi abbiamo mangiato la nostra frutta in compagnia dell'estinto (c'era anche un carro armato, residuato della guerra).  Chissà,  magari anche gli estinti così si sentono meno soli.
Oggi lunghissimo percorso in auto. Avremmo voluto trascorrere l'ultima notte in Nagorno Karabakh, ma sulla nostra strada non c'era nemmeno una pensioncina. E chilometro dopo chilometro, abbiamo passato di nuovo il confine. Siamo di nuovo in Armenia. 

giovedì 3 agosto 2017

la loro prima discoteca

Vank (Nagorno Karabakh)
Il Piccolo ama ballare. Ai tempi del pancione lo sentivo agitarsi ogni volta che alzavo il volume della musica (cosa che faccio sempre, appena la Grande si allontana; altrimenti mi toccano le sue lamentele). Oggi basta entrare in un centro commerciale, o passare vicino ad un semaforo e sentire un'autoradio, e comincia ad agitarsi. Muove a ritmo frenetico fianchi e spalle, alza le braccia fin sopra la testa; la cosa divertente è che sembra risponda automaticamente. Sente la musica e istantaneamente comincia a ballare, mettendoci ogni volta il massimo dell'impegno. Quindi stasera è stato lui il primo a partire, agitandosi come un pazzo e battendo le mani mentre eravamo ancora seduti al tavolo della cena (la solita cena ordinata alla cieca, e con il dubbio che il cameriere non avesse capito nulla; invece, come le altre volte, ci è andata bene).
Alloggiamo in un albergo folle, che ha la forma di una nave e si affaccia su un fiume. Sull'altra sponda, collegata da un ponte stile "capitan Uncino", c'è una pista da ballo in legno, che stasera è stata trasformata in discoteca. Balli di gruppo, luci psichedeliche e tutta la gioventù del paese radunata per l'occasione. Il Piccolo è letteralmente impazzito, tanto che facevo fatica a tenerlo in braccio. Nemmeno il tempo di guardarmi intorno e la Media si era già buttata nella mischia. Ha conquistato rapidamente il centro della pista, ballava tenendo per mano le ventenni presenti, non si tirava indietro nemmeno di fronte ai balli di gruppo, che ovviamente non conosce. Più difficile è stato coinvolgere la Grande: Troppo faticoso - ripeteva - e musica a volume troppo alto. Poi, però, si è lasciata trascinare dalla sorella. Nel frattempo, con la scusa di far ballare il Piccolo, e memore delle mie nottate danzanti di qualche decennio fa, mi ero lanciata anch'io (il Papà si è invece rapidamente - e saggiamente - dileguato).
Chissà come eravamo a vederci da fuori. Una madre dal sorriso ebete con un bimbetto impazzito in braccio, due bambine saltellanti al centro della pista. La loro prima serata in discoteca. Il difficile verrà quando non vorranno più andarci insieme alla loro mamma... ma è un pensiero che scaccio dopo un attimo; per ora ballo insieme a loro, e basta.

mercoledì 2 agosto 2017

giornata non prevista

Stepanakert (Nagorno Karabakh)
L'altra cosa fantastica delle fontanelle armene è che permettono di lavare rapidamente bocca e mani (e braccia e collo) dopo un dolce mangiato per strada. Oggi la Grande e la Media hanno concluso la giornata con una mela caramellata. Si sono allegramente riempite la faccia di glassa, ma per una volta non sono state necessarie decine di salviette: c'era la fontanella. La mela caramellata fa un po' "vecchio stile", ma a loro è piaciuta moltissimo.
Trascorriamo a Stepanakert una giornata in più del previsto, ed il motivo è... l'albergo. Niente di memorabile, in effetti: è un palazzo enorme e vuoto, con corridoi coperti di moquette stile "Overlook Hotel" (in effetti ogni tanto guardo se per caso non spunta Danny in sella al triciclo); la colazione è decisamente ordinaria (anche se il Piccolo apprezza molto le fette di salame, con questo schierandosi decisamente insieme alla parte di famiglia che gradisce il salato di prima mattina - cioè tutti tranne la Mamma). Però, proprio sotto la finestra della nostra stanza, c'è l'unica piscina che abbiamo trovato fino ad oggi in Armenia; la Grande e la Media adorano tuffarsi; probabilmente questa per loro è l'ultima occasione. Quindi ci siamo fermati. Alla piscina si accede dalla strada, senza passare alcun cancello, e ci vengono anche tanti bambini che abitano nelle vicinanze. Le nostre ragazze oggi hanno socializzato con un gruppo di ragazzini armeni; argomento in comune: la Juventus; chissà in quale lingua ne hanno discusso, visto che qui nessuno parla inglese. Ma i bambini, si sa, si capiscono sempre.
Approfittando della giornata non prevista, siamo andati a vedere i due musei sulla guerra contro l'Azerbaigian: quello dei soldati dispersi e quello dei soldati caduti. Entrambi sono impressionanti: le sale sono cupe, c'è una struggente musica di duduk (il flauto tradizionale armeno) e alle pareti sono appese centinaia di foto in bianco e nero, tutte della stessa grandezza. Sono i ragazzi morti. La guerra in Nagorno Karabakh mi era sempre sembrata distante. Ma oggi tutte quelle foto di ragazzini, le loro chitarre con gli adesivi, i loro orologi tornati dal fronte, io proprio non riuscivo a sopportarli. Pensavo alle madri che li hanno cullati. Pensavo che anche loro, come oggi fa il Piccolo, tendevano le manine per essere presi in braccio. I musei, tra l'altro, sono curati dai parenti delle vittime. Una madre anziana indica la foto di un ragazzo con una gran massa di ricci, ripreso in un giorno di festa: Mio figlio - dice - si era appena sposato. Poi si china e abbraccia la mia Grande.
Io per un attimo mi chiedo se sia stato giusto portare qui le mie ragazze, se la guerra non sia troppo per loro. Ma la memoria è fondamentale. Entrambe impugnano la penna e si avvicinano al libro degli ospiti. Siamo nella sala con le foto dei dispersi. La Grande scrive: Spero che tutti questi figli tornino a casa dai genitori. La Media: Sono sicura che non sono morti, sono da qualche parte a curarsi le ferite.
Sorrido, ma so che non sono pensieri infantili: so che tante madri, anche dopo 25 anni, aspettano ancora.

martedì 1 agosto 2017

soffritto con cipolla e pasta

Stepanakert (Nagorno Karabakh)
A Stepanakert i segni della guerra si vedono. C'è qualche palazzo sventrato e alcuni cumuli di macerie in periferia. Ma le vie del centro, se si esclude la massiccia presenza di soldati in divisa, sono quelle di una cittadina normale, vivace anzi. A Shushi, che dista appena una decina di chilometri, sembra che la guerra sia finita ieri: ci sono molti palazzi semi-abbattuti o seriamente danneggiati dalle bombe. La moschea (qui c'era un importante gruppo azero) è in ricostruzione. Arriviamo nella cittadina in mattinata e incrociamo una specie di festa di paese: è appena arrivato un pullman di soldati che tornano a casa dal servizio di leva. Qui la durata è di due anni, obbligatori, e spesso questi ragazzi (la maggior parte avrà vent'anni) vengono mandati a difendere i confini. Ci fermiamo qualche minuto ad osservare le madri che riabbracciano i figli, gli amici in posa per la foto ricordo. Oggi a Shushi dovrebbe essere un giorno di festa, ma la città ci sembra in qualche modo spenta. È encomiabile il tentativo di ricominciare anche attraverso la cultura e l'arte (visitiamo due musei, entrambi molto curati e in edifici appena restaurati) eppure è come se qualcosa non andasse per il verso giusto. La città ci sembra sparsa su un territorio troppo grande e per le strade non c'è praticamente nessuno. All'ora di pranzo ci dirigiamo in uno dei due ristoranti del paese, che espone l'attraente insegna "cucina armena". In realtà la cucina è completamente vuota, se si esclude un tizio che ci dorme dentro, e le persone sedute ai tavoli in giardino (alcune delle quali festeggiano il rientro dei militari) hanno evidentemente portato il cibo da casa. L'atmosfera, però, ci sembra piacevole. Chiediamo se sia possibile avere almeno un piatto di pasta per il Piccolo. La signora fa cenno di sì, ma in cucina non c'è nemmeno uno spaghetto. A noi propone insalata, pane e formaggio, poi chiede al Papà di accompagnarla nel vicino negozio a prendere mezzo chilo di fusilli. Ce li serve ovviamente scotti, e per di più saltati in padella con soffritto di cipolla. Il Piccolo ne mangia una quantità enorme, gli altri membri della famiglia rimangono interdetti (perfino la Media, che quando si tratta di pasta non va mai per il sottile) e quasi digiuni. Ma il tavolo all'ombra è piacevole. La signora ha perfino sfoderato una tovaglia bianca. Le famiglie degli altri tavoli regalano frutta ai bambini. Siamo contenti comunque; e speriamo che Shushi, prima o poi, si riprenda dalla guerra.

lunedì 31 luglio 2017

la cosa peggiore

Stepanakert (Nagorno Karabakh)
La cosa terribile dell'Armenia sono le finestre: abbiamo l'impressione che ai locali, o per lo meno alla piccola minoranza che gestisce pensioni e alberghi, non interessi in alcun modo oscurare. Le finestre sono prive di avvolgibili, di imposte, spesso perfino di tende, il che rappresenta un problema enorme. Io e il Papà preferiremmo il buio, o almeno la penombra, ma riusciamo a dormire lo stesso. La Grande e la Media sembrano non far caso alla luce. Il Piccolo, ahimoi, è sensibilissimo. Al primo chiarore si sveglia immediatamente, e ovviamente non è per nulla intenzionato a starsene amabilmente nel suo lettino. Fino ad oggi non abbiamo mai, davvero mai potuto oscurare; alla luce dell'esperienza disperiamo per il futuro e quindi abbiamo sviluppato una serie di strategie. La prima e più banale è quella dei turni. Con precisione svizzera, io e il Papà ci diamo il cambio. Uno culla, esce col passeggino o tiene la manina, l'altro si gira e continua a dormire. Per la cronaca, domani è il mio turno e sono atterrita già da ora. La seconda strategia è la cosiddetta "tre". Ovvero preparo un lenzuolo la sera e metto la sveglia alle tre del mattino. A quell'ora mi alzo e sistemo il lenzuolo sul letto da viaggio del Piccolo (che è una specie di igloo), in modo che rimanga tipo baldacchino e tolga almeno un po' di luce. Posizionare il lenzuolo direttamente la sera non si può, perché il Piccolo avrebbe caldo e si sveglierebbe prima ancora che con la luce. Nonostante tutte queste brillanti pensate, non è che si facciano vere dormite: consideriamo che le sette del mattino siano un ottimo risultato, ma più spesso il Piccolo si attiva prima delle sei. Noi, che non siamo mattinieri affatto, speriamo sempre che il prossimo alloggio abbia delle belle imposte scure, e nel frattempo puntiamo la sveglia nel cuore della notte.
Oggi siamo entrati in Nagorno Karabakh: sul viale principale di Stepanakert, pieno di soldati in divisa e mezzi blindati, una ragazza del posto ha salutato a gran voce il Piccolo, chiamandolo per nome. Ci eravamo conosciute, io e lei, due giorni fa a Halidzor, nell'ecovillaggio. Era mattina presto ed eravamo entrambe in giardino; lei perché le piace fare ginnastica all'alba. Io perché il Piccolo si era svegliato...




domenica 30 luglio 2017

meraviglie

Goris
Una delle meraviglie dell'Armenia è l'acqua. Quella del rubinetto è sempre sicura (almeno così speriamo, dato che ne abbiamo bevuta un po' ovunque, con l'unica precauzione di non darla al Piccolo). In più ci sono fontanelle ovunque. Ogni cento metri nelle cittadine, e perfino i più sperduti villaggi delle montagne, dove la gente dorme insieme alle mucche, hanno la loro fontanella di acqua, con l'usuale cornice di anziani che giocano a scacchi. Uno potrebbe non farci troppo caso. Si consideri, però, che le temperature sono molto alte, la Famiglia in Cammino beve come una famiglia di cammelli, e non avere il pensiero di caricare litri e litri di acqua in macchina è un bel sollievo. Dal canto suo, il Piccolo ha imparato a bere dal bicchiere, dalla bottiglia, dalla lattina. Forse il fatto che dimentichiamo regolarmente la sua tazza ha avuto un ruolo: i bambini, si sa, sono come cuccioli, e l'istinto di sopravvivenza è una bella spinta all'apprendimento.
Altra vera meraviglia sono le giostre. Non l'avremmo mai detto, ma in ogni paese c'è un luna park permanente. Nelle città grandi anche più d'uno. A Yerevan ne abbiamo visti almeno tre. I luna park sono solitamente tenuti bene e un giro in giostra costa l'equivalente di 50 centesimi o un euro. I minorenni della Famiglia in Cammino sembrano muniti (sì, anche il Piccolo) di una specie di radar, e quindi le attrazioni non ci sfuggono mai. La nostra preferita è l'autoscontro in acqua (che in Italia non avevamo mai visto), ma purtroppo non si trova sempre. Per chi se lo stesse chiedendo, non si tratta di pedalò, ma di barchette a motore con acceleratore, proprio tipo autoscontro. Roba da mandar fuori di testa gli adulti, figuriamoci le bambine.
Oggi siamo a Goris, vicini al confine con il Nagorno Karabakh. Abbiamo visitato la casa museo di Axel Bakunts, uno scrittore armeno ucciso dalle "purghe" di Stalin (Mamma, ma che bisogno c'era di ucciderlo? Non potevano parlarsi?) e poi il villaggio di Khndoresk, la cui parte antica è tutta scavata sul fianco di una montagna. Ci si arriva attraverso un ponte sospeso che mi dava le vertigini (il peggio è stato quando la Grande e la Media se ne sono accorte, perché hanno trovato la mia paura estremamente divertente e si sono messe a far dondolare il ponte. Le gioie della maternità). Poi abbiamo concluso la giornata alla giostre: un piccolo luna park in un giardino pubblico, con pista dell'autoscontro (purtroppo non in acqua) tutta per noi. Il Papà si è lanciato anche lui sulla macchina all'inseguimento delle bambine, io e il Piccolo siamo rimasti a bordo circuito a ballare sulla musica-spazzatura degli altoparlanti. Tutti e cinque a ridere come ubriachi. Evviva le meraviglie dell'Armenia.

sabato 29 luglio 2017

gola del diavolo e torta al cioccolato

Halidzor
La guida parla della Gola del Diavolo, poco distante dal nostro alloggio, come di una spettacolare formazione naturale con un canyon profondo, cascate e piscine di roccia, dove adulti e bambini si divertono a nuotare. Entusiasta all'idea di un bagno fresco e munita di costumi sotto i pantaloni, la Famiglia in Cammino oggi si è quindi diretta a queste pozze. Io per la verità subodoravo la fregatura, intanto perché l'acqua non è per niente il mio elemento, e poi perché insomma, un luogo idilliaco potrebbe mai chiamarsi Gola del Diavolo? Preferisco comunque unirmi all'euforia del gruppo e andiamo tutti insieme, asciugamani sulle spalle e Piccolo sottobraccio, verso l'accesso al canyon. Qui comincia il bello: dopo le prime due pozze, fangose e piene di gente a mollo, la roccia diventa molto ripida e scivolosa. Per arrivare sul fondo, dove ci sono le piscine più spettacolari, bisogna in sostanza rischiare l'osso del collo. Il Papà si sporge per cercare un passaggio minimamente sicuro, ma alla fine perfino lui cede le armi. Il percorso è davvero troppo ripido e tutto su roccia melmosa.
A questo punto rimangono due possibilità, entrambe spaventose: dichiarare la sconfitta e fare marcia indietro (ma avevamo incautamente promesso il bagno alla Media e alla Grande, che scalpitano) oppure entrare in una delle prime due pozze, che sono scure di fango, melmose, puzzolenti e piene di gente; i bagnanti peraltro sono tutti maschi, mentre le donne stanno al bordo e tengono in mano i vestiti dei mariti e figli; evidentemente sguazzare è considerata attività virile. Poco male: colgo la scusa per sottrarmi con destrezza e pongo il veto anche sul bagno della prole. Mai, mai, le mie figlie entreranno in queste pozzanghere. Il Papà ovviamente non è dello stesso avviso; mentre faccio questi pensieri lui si è già preparato per il tuffo, insieme alla Grande e la Media. Rimango fuori dall'acqua col Piccolo in braccio (almeno su di lui ho resistito) e cerco di non pensare agli spaventosi microrganismi, tutti patogeni, che in questo momento stanno assalendo le mie ragazze. Loro ovviamente sono entusiaste; del resto il bagno selvaggio si sposa bene con la piega che ha preso il viaggio negli ultimi due giorni: alloggiamo in un villaggio ecoturistico in cima ad una rupe, in casette di legno che circondano un grande giardino. Le casette sono a strapiombo sulla valle, e nel giardino razzolano due pavoni, insieme ad una cucciolata di cani, già adottati dalle nostre figlie, che passano appunto la giornata a rotolare sull'erba, assumendo su visi e vestiti un uniforme colore grigiastro. L'ecovillaggio  funziona anche come ristorante (con bei tavoli rustici sparsi sotto gli alberi) e al ritorno dalla gola ci troviamo in mezzo ad una festa. La Grande e la Media si buttano subito nella mischia e fanno amicizia con due bambine della loro età. Loro sono di origine armena ma vivono negli Stati Uniti con i genitori. La mamma mi si avvicina per chiacchierare: è nata nel villaggio qui vicino, poi ha studiato medicina a Yerevan; da 17 anni vive a New York e si occupa di ricerca sul cancro. Ogni anno, però, la famiglia si ritrova (saranno una cinquantina, sembra un pranzo di nozze a milioni di decibel); oggi tra l'altro è il compleanno di una delle bambine che hanno fatto amicizia con le nostre. Ci sono bambini di tutte le età che corrono in ogni direzione, anziani seduti che chiacchierano, ragazzi e adulti che fanno selfie in tutti gli angoli. La famiglia armena vuole assolutamente che anche noi mangiamo la torta al cioccolato. Oggi in mezzo a questo gruppo enorme, chiassoso e simpatico ci siamo anche noi.

venerdì 28 luglio 2017

alla ricerca del pisellino

Halidzor
Ci dirigiamo a est, verso il Nagorno Karabakh, sulla strada per l'Iran. L'area di Sisian è praticamente un immenso altopiano. Ai bordi della strada ci sono centinaia di arnie e minuscoli banchetti di vendita di miele. Dietro ad ogni banchetto c'è di solito un piccolo caravan attrezzato per dormire, oppure una tenda; tutti questi venditori sono dei "nomadi delle api", che d'inverno vivono nei loro villaggi (anche a decine, centinaia di chilometri di distanza) e d'estate si spostano per raccogliere il miele e venderlo. Non possono permettersi (o le distanze non permettono) il pendolarismo e quindi loro rimangono per mesi, qui, a bordo strada, in una vecchia tenda o una roulotte sgangherata, ovviamente senza servizi. Ci fermiamo al banchetto di una coppia di anziani. I bambini, si sa, aprono tutte le porte e quindi la Famiglia in Cammino viene invitata a mangiare un po' di frutta all'interno della tenda. Due letti, due sgabelli, niente che il Piccolo possa rompere. Lui peraltro se ne sta abbracciato al Papà. Sorride alla signora ma non vuole saperne di darle la mano. Molto più espansive sono le ragazze. La signora, una fila di denti d'oro, fazzoletto in testa e ovviamente nemmeno una parola in nessuna lingua (a parte l'armeno; ma a questo punto siamo noi a non seguirla), ci fa sedere e ci offre della frutta. Chiacchiera continuamente, sorride, porta mele minuscole (che la Grande e la Media apprezzano molto) e pesche. Le ragazze sono ammaliate in un attimo: Perché non lo facciamo anche noi, mamma? - chiede con insistenza la Media - Fare cosa, tesoro? - Ci compriamo una tenda e veniamo a vivere qui. Vendiamo miele, nessuno va più a scuola e stiamo sempre in campeggio - Temo di non essere pronta, tesoro...
La signora continua a farmi domande sui bambini. Io immagino che voglia sapere i loro nomi. Li proncuncio indicandoli uno ad uno e aggiungo le loro età. Lei però non è soddisfatta, continua a dirmi la stessa cosa, ma io non ho la più pallida idea di cosa stia chiedendo. Ad un certo punto si avvicina al Piccolo e sposta in un attimo pantaloncini e pannolino; vede il pisellino, esulta a gran voce e batte le mani. Non ero riuscita a farle capire che è un maschio...

giovedì 27 luglio 2017

una donna in pace

Yeghegnadzor
Amo le lavatrici. Dal Cammino (anzi: dai Cammini) ho imparato a portare pochissimi vestiti e a lavare regolarmente. Ma ho anche imparato la meraviglia di infilare il bucato del giorno in una macchina che farà il lavoro meglio di me, e senza che io debba fare fatica. Non ho nemmeno sensi di colpa ecologici: con il bucato di cinque persone, anche se si tratta di uno-due giorni, il cestello si riempie. Anche in questa pensione (come nell'appartamento di Yerevan) abbiamo la lavatrice a disposizione, nel bagno in comune con gli altri ospiti. Ora il nostro bucato è steso ad asciugare in terrazza, ed io non potrei essere più felice di così. Non mi importa di dover condividere il bagno, né che non ci sia l'aria condizionata (anche se i bambini apprezzerebbero - soprattutto il Piccolo, che si sveglia sudatissimo e assetato). Datemi una lavatrice e sarò una donna in pace. Così mi sento in questo momento. Ora io so bene che quella della lavatrice è una specie di fissazione. Ma so anche che qualsiasi madre con tre, due o un figlio, in viaggio o a casa propria, capisce benissimo quello che intendo.
Questa mattina visita al monastero di Noravank, uno dei più famosi dell'Armenia. Il nucleo più antico risale al nono secolo, mentre la maggior parte del complesso è del tredicesimo. Spiccano, tra gli altri dettagli, un bassorilievo di Cristo con gli occhi a mandorla (era il tempo delle invasioni dei Mongoli) e, sulla facciata di uno degli edifici principali, due scalinate di pietra, la cui salita rappresenta l'ascesa al Cielo, che solo i puri di cuore sono in grado di affrontare. La Grande e la Media evidentemente non hanno dubbi sui propri cuori, perché si lanciano immediatamente sui gradini. Vengono bloccate a metà salita dalle urla materne, e mestamente scendono ben prima di essere arrivate in cima; mugolano di disappunto a più riprese, ma a me questi gradini di pietra, che si arrampicano fin sulla chiesa senza corrimano, sembrano davvero troppo esposti. Contengo i lamenti acquistando una cartolina con l'alfabeto armeno: la Grande è decisa ad imparare la lingua locale per poterci aiutare nella lettura dei segnali stradali, che al momento presenta alcune difficoltà.
Nel pomeriggio visitiamo il caravanserraglio Selim, sull'omonimo passo montano a 2.400 metri di altitudine, e dello stesso periodo del monastero. Il Papà racconta alla bambine la storia dei mercanti che si fermavano a riposarsi lungo la Via della Seta. Racconta dei lunghissimi viaggi verso la Cina, di Marco Polo e del suo soggiorno alla corte del Gran Khan. La Grande è immediatamente affascinata. Guarda le mangiatoie di pietra e le sembra di sentire l'odore dei cavalli. Chiede se sia ancora possibile viaggiare a piedi dall'Europa alla Cina, suggerisce pacatemente l'acquisto del Milione. La Media percorre avanti e indietro il caravanserraglio, sentenzia che è solo una malga di pietra ed esce fuori a raccogliere fiorellini che sbriciola sulla testa del Piccolo. L'incredibile sta nel fatto che il Piccolo è pure contento. Sta seduto sull'erba, ad accarezzarsi la testa piena di polline, e ride a gola spiegata.

mercoledì 26 luglio 2017

stepanyorn

Yeghegnadzor
Prima tappa dopo Yerevan, e siamo già in un posto dal nome impronunciabile. La domanda, però, non è nuova; anzi, mi è venuta in mente più volte, nel corso dei nostri viaggi, alla ricerca di eremi sperduti e conventi sulle montagne: cosa può spingere un ragazzo di trent'anni a mollare tutto, tranne una veste lunga e un paio di ciabatte, per vivere da solo su una montagna? L'avrei chiesto oggi a  Stepanyorn, se non fossimo stati separati da un'evidente barriera linguistica.
Tutta la zona qui intorno è punteggiata di chiese e monasteri antichissimi. Abbiamo visto quel che rimane del monastero Tanahat: una chiesa in basalto nero, intorno alla quale nel Medioevo c'erano le aule di un'università; oggi solo muri caduti, sterpaglie e lucertole grandi come un braccio, che fanno impazzire la Media e la Grande. Nelle navate della chiesa, nidi di rondini che ci accolgono con un fortissimo pigolare. Poi ci siamo diretti al santuario di Arkaz, che ospita, in una minuscola sala dove si entra solo scalzi, un pezzetto della croce di Cristo. È qui che abbiamo incontrato Stepanyorn. Tutto nero (tonaca, capelli e barba) ma con occhi azzurrissimi, il giovane monaco ci ha letto la storia del santuario in inglese. Solo dopo le prime righe ci siamo accorti che il testo era scritto a lettere armene, e che quindi lui non capiva nemmeno esattamente cosa stesse dicendo (a tratti, in effetti, non lo capivamo nemmeno noi). Stepanyorn sa cantare in latino (e fa sentire alla Grande un pezzo di Canto Gregoriano) ma di inglese non parla una parola; sembra però molto contento di conoscere i bambini; benedice più volte il Piccolo e lo accompagna fin sul sarcofago che custodisce la croce; regala una busta di albicocche alla Grande e alla Media e ci accompagna a vedere la sua cella. È una stanza completamente spoglia: letto, tavolo e sedia. Là per là mi viene in mente sua madre. Mi chiedo come abbia preso la scelta del figlio di arrampicarsi in cima ad una montagna (qui intorno non c'è nulla, ma proprio nel senso di niente, per chilometri e chilometri: solo alture gialle) e chiudere ogni contatto con il mondo per custodire un pezzetto della croce di Gesù chiuso sotto una pietra. Mentre mi agito tra questi pensieri si avvicina l'ora di cena. Rientriamo nella macchina che abbiamo noleggiato questa mattina e torniamo verso la pensione di oggi. Ma cosa spinge un ragazzo di trent'anni a mollare tutto?

martedì 25 luglio 2017

prime volte

Yerevan
Dopo quattro mesi di gattonamento, sempre più spericolato e a velocità mai viste, il Piccolo sta conquistando la posizione eretta. Tutto d'un tratto ha abbandonato (quasi) del tutto l'andatura a quattro zampe, e si applica a camminare con la perseveranza di un ricercatore che sente di aver trovato la pista giusta. Cade, si rialza, procede con un'andatura degna del primo Charlot, e sorride sempre, come se stesse compiendo un miracolo. Un po' lo è, in effetti. Il bello è che questo miracolo è tutto armeno e tutto nostro. Se va avanti a questi ritmi, il Piccolo smetterà di barcollare in un paio di settimane; nonni, zii e amici vari lo rivedranno a cambiamento già avvenuto. Sapere di essere gli unici spettatori di questa rivoluzione ci rende più sopportabili alcuni inconvenienti: con il cibo, per esempio, siamo già nella fase "che non lo sappia la pediatra". Lungi dall'apprezzare la cucina armena, che invece è molto interessante (ma su questo anche la Media avrebbe qualcosa da dire), il Piccolo segue le orme della sorella maggiore: tra gli aneddoti della Famiglia in Cammino rientra la dieta "pane e patate fritte" che aveva seguito la Grande  otto anni fa in Albania, il viaggio estivo dell'epoca. Il Piccolo si sta comportando più o meno allo stesso modo. Rifiuta perfino il riso in bianco e chiede a gran voce solo patatine, possibilmente accompagnate da Coca Cola (un'infausta, recente scoperta). Io continuo a ripetermi che non sarà un mese di cibo-schifezza a rovinarlo, e mi pulisco la coscienza offrendogli, fra un pasto e l'altro, abbondante frutta. Coltivo la speranza di una svolta e mi auguro che il Piccolo cambi idea sui piatti armeni. Vero è che, all'epoca, la Grande aveva perseverato fino alla fine. Ma si sa che ogni bambino è diverso. Oltre agli esperimenti su due zampe, tra le "prime volte" del Piccolo in questi giorni ci sono anche le giostre (così come era stato per la Grande in Albania): incuriositi dalle foto sulla guida, oggi siamo andati a vedere la ferrovia per bambini di Yerevan, realizzata in epoca sovietica a scopo didattico. Come tutte le vestigia sovietiche, anche la ferrovia è fatiscente, ma sulla locomotiva campeggia ancora la stella rossa e i binari sembrano quelli di un vero treno, il che rende il tutto davvero affascinante, inclusi i rumori poco rassicuranti del treno in movimento. Intorno alla stazione c'è un vecchio luna-park, dove ci siamo fermati una mezz'ora, le ragazze in autoscontro, il Piccolo su un'automobilina a gettoni. In giornata, visita al museo dei manoscritti antichi e a quello di storia dell'Armenia. La Famiglia in Cammino, si sa, è eclettica.

lunedì 24 luglio 2017

non potevano parlare

Yerevan
Alloggiamo in un gigantesco, fatiscente palazzo di fabbricazione sovietica. A parte le vecchiette che vendono frutta in cortile, gli anziani schierati in fila per due a giocare a scacchi, i manifesti pubblicitari attaccati e strappati per le scale (scale che definire pericolanti è un eufemismo), la cosa più divertente è l'ascensore: una scatoletta minuscola e traballante, ma questo sarebbe niente; il fatto è che le porte si aprono e si chiudono nel giro di pochissimi secondi; poiché non ci sono fotocellule (figurarsi), alla Mamma chiudifila è già toccato più di una volta di sentirsi strizzare, fra le risate dei quattro quinti della famiglia (anche il Piccolo, sì). Uno potrebbe chiedersi se, dato l'elevato rischio di lussazione di una spalla materna, non sia preferibile salire le scale. Ma poiché siamo al quinto piano, le scale sono quelle che sono e abbiamo il passeggino, la risposta è piuttosto chiara.
Dunque, compiuto anche questa mattina il salto fuori dall'ascensore, e volendo controbilanciare le scorribande di ieri con una visita culturale, ci siamo diretti al monumento che ricorda il genocidio armeno. Il complesso, in posizione dominante sulla città, è costituito da un obelisco a punta, alto più di quaranta metri (la guida lo definisce "proteso verso il cielo") e un grande mausoleo di pietra che custodisce una fiamma perpetua. Ogni anno, nel giorno in cui si celebra la ricorrenza (24 aprile), il mausoleo si riempie di rose. Oggi c'era solo qualche mazzo deposto a terra. Intorno, una foresta di sempreverdi piantati da governi, delegazioni e ministri di tutto il mondo a ricordo dell'olocausto armeno. Il tutto, ovviamente, ha richiesto una serie di spiegazioni per la Grande e la Media, che sono rimaste vivamente impressionate dal monumento. Provavano a leggere i nomi dei villaggi armeni rastrellati con le armi, cercavano le piante messe a dimora da italiani, si fermavano incantate davanti al fuoco eterno. Io me la cavo abbastanza bene sull'esposizione dei fatti. Parliamo anche della Prima Guerra Mondiale, cerchiamo analogie e differenze tra questo massacro e la shoah. Spiego anche l'origine di un termine difficile è terribile: "genocidio". Mi blocco, però, di fronte alla domanda più difficile; me la pone la Grande: Non potevano provare a parlare, invece di ammazzare donne e bambini?

domenica 23 luglio 2017

vardavar

Yerevan
Il vicino di tavolo del bar questa mattina ci aveva avvertito: Oggi è la festa d'estate, attenti alle secchiate d'acqua! Noi avevamo anche letto di questa tradizione sulla guida, ma senza darci troppo peso. Chi mai potrebbe lanciare un gavettone gelido su una simpatica famiglia a spasso? Quindi la prima doccia ci coglie impreparate, la Media e me: un giovanotto armato di secchio corre fuori dal suo negozio e ci prende in pieno con l'acqua. Là per là penso che ho la macchina fotografica al braccio, che la Media si sente male (ogni inizio di viaggio è salutato con uno o più episodi di vomito: oggi tocca a lei) e che lo schizzo avrebbe potuto investire il Piccolo, e quindi urlo. Il ragazzo evidentemente non capisce nulla, ma corre a rifugiarsi nel negozio. Anche perché il Papà, pure lui preoccupato per la Media, rincara la dose di imprecazioni. Dopo poco capiamo che l'intera città è in preda ad una specie di delirio: ragazzi armati di secchi corrono in tutte le direzioni, la gente si affaccia al balcone e butta acqua sugli sconosciuti che passano di sotto, ai semafori vengono prese di mira perfino le auto con i finestrini abbassati. Oggi Vardavar è la festa della Trasfigurazione e cade 14 settimane dopo Pasqua, ma in origine era la festa pagana di Astghik, dea della fecondità e della bellezza. Una specie di Afrodite, insomma, il cui culto era associato alla natura lussureggiante e all'estate. Sia come sia, oggi sottrarsi ai gavettoni è impossibile in tutta l'Armenia, a meno di non tapparsi in casa. Rimaniamo in appartamento per qualche ora, finché la Media non si ristabilisce; pisolino, sali reidratanti e poi sia lei sia la Grande fremono per unirsi alla baraonda. Gettare e gettarsi acqua addosso, per strada e tutte vestite, è una specie di apoteosi del proibito. Noi tentiamo una blanda resistenza, ma poi acquistiamo due pistole ad acqua e ci dirigiamo in piazza della Repubblica, che è il centro del delirio perché dominata da un'enorme fontana, per l'occasione diventata piscina collettiva. Le ragazze sono in visibilio. Si lanciano verso la fontana, svuotano e riempiono i serbatoi a ritmi forsennati, scuotono le chiome gocciolanti e strizzano le gonne. Si uniscono perfino ad una banda di ragazzini scalmanati e sono a buon diritto partecipi della baldoria. Naturalmente anche io e il Papà siamo bagnati dalla testa ai piedi; il Piccolo viene fortunatamente risparmiato. Mentre torniamo a casa prima di cena, per asciugarci e stendere i vestiti, io penso che per fortuna Vardavar è solo una volta all'anno. Alla Grande e alla Media, invece, l'Armenia sembra già un paradiso.

sabato 22 luglio 2017

previsioni errate

Yerevan
Rimaneva il terrore del volo: fatto a tutti il vaccino per l'epatite, inserito un ciuccio di riserva in ogni tasca, il viaggio di andata era la preoccupazione più grossa. Il primo motivo è che - ma sì, confessiamolo - un po' di paura di volare mi è sempre rimasta, e questo nonostante la baldanza di chi dice, statistiche alla mano, che un pezzo di autostrada in macchina è ben più pericoloso di una tratta di aereo. È una frase che uso spesso anch'io; ma vallo a spiegare al mio inconscio, sempre saldamente ancorato a terra.
Il secondo motivo di terrore erano gli orari del volo: partenza da Bergamo alle 4.40 per Kiev. Due ore e mezza per aria (sì, ma il tratto di autostrada... eccetera), stop di due ore, poi altre due ore e mezza da Kiev a Yerevan. Il tutto in notturna, senza mai dormire (siamo usciti di casa a mezzanotte, giusto una decina di minuti dopo aver raffazzonato il bagaglio) e con il Piccolo da gestire sempre in braccio, poiché lui ancora non ha diritto al posto.
Contrariamente a qualasiasi previsione, il Piccolo ha urlato di gioia entrando in aereo, ha teso un'inutile imboscata ai (pochi) capelli del signore seduto davanti, ha deciso che le cinture di sicurezza sono noiose, e ha trascorso quasi tutto il viaggio dormendo. Io sono scesa con le gambe totalmente anchilosate e un bisogno tremendo di far pipì: per tutto il tempo non ho potuto muovere un muscolo (figuriamoci alzarmi dal posto) ma almeno ho evitato il terribile stress delle urla del neonato in cabina. Sempre contro qualsiasi previsione, la parte difficile è al momento in corso: sono le dieci e mezza e lui non vuole saperne di chiudere occhio, nonostante due ore di tentativi materni (invero non sempre pazienti). La Grande e la Media sono a letto da un pezzo, perfino il Papà ha ceduto. Io, a forza di cullare il dolce angioletto, adesso ho le braccia a pezzi, e prego di non trascorrere un'altra notte insonne: fuori Yerevan ci aspetta.

venerdì 21 luglio 2017

nuovi passi

In effetti non ricordo di aver mai terminato un bagaglio. Arriva, molto prima della conclusione, il momento in cui sono stufa. Allora infilo nella borsa arancione le ultime cose che ho in mano e decido che va bene così. Quel momento è appena arrivato. E coincide, tra l'altro, con l'ora di infilarsi le scarpe e andare a chiamare i bambini: iniziamo un nuovo viaggio, diretti in Armenia. Stanotte voliamo su Kiev e poi a Yerevan.
Niente peluche nel bagaglio di quest'anno: né la Grande né la Media ne hanno fatto richiesta. E nemmeno ci sono, con sollievo di entrambe, i libri per le vacanze. In compenso abbiamo le creme antirughe per la Mamma, ciucci infilati in ogni angolo (ogni anno ho un terrore che sovrasta tutti gli altri: stavolta il terrore è smarrire il ciuccio del Piccolo) e Voltaren che ci accompagna dei tempi del Cammino. Sempre dai tempi del Cammino conservo l'abitudine di portare pochissimo vestiario: pantaloni lunghi e corti, due magliette a testa, e l'intenzione di fare il bucato ogni sera, perché niente è più bello che muoversi leggeri. Ripartiamo dal punto in cui ci siamo interrotti l'anno scorso: Mi sono iscritto a danza, l'ho fatto per la panza è ancora la nostra canzone preferita, e il Piccolo continua a ridere ad ogni assalto, non sempre amichevole, delle sue sorelle. Altre cose che lo fanno ridere sono i cani, le pentole sbattute l'una contro l'altra e il solletico sotto le ascelle. Negli ultimi giorni, al mare in Toscana, il Piccolo ha anche cominciato a camminare: è proprio l'ora di partire di nuovo.