lunedì 31 luglio 2017

la cosa peggiore

Stepanakert (Nagorno Karabakh)
La cosa terribile dell'Armenia sono le finestre: abbiamo l'impressione che ai locali, o per lo meno alla piccola minoranza che gestisce pensioni e alberghi, non interessi in alcun modo oscurare. Le finestre sono prive di avvolgibili, di imposte, spesso perfino di tende, il che rappresenta un problema enorme. Io e il Papà preferiremmo il buio, o almeno la penombra, ma riusciamo a dormire lo stesso. La Grande e la Media sembrano non far caso alla luce. Il Piccolo, ahimoi, è sensibilissimo. Al primo chiarore si sveglia immediatamente, e ovviamente non è per nulla intenzionato a starsene amabilmente nel suo lettino. Fino ad oggi non abbiamo mai, davvero mai potuto oscurare; alla luce dell'esperienza disperiamo per il futuro e quindi abbiamo sviluppato una serie di strategie. La prima e più banale è quella dei turni. Con precisione svizzera, io e il Papà ci diamo il cambio. Uno culla, esce col passeggino o tiene la manina, l'altro si gira e continua a dormire. Per la cronaca, domani è il mio turno e sono atterrita già da ora. La seconda strategia è la cosiddetta "tre". Ovvero preparo un lenzuolo la sera e metto la sveglia alle tre del mattino. A quell'ora mi alzo e sistemo il lenzuolo sul letto da viaggio del Piccolo (che è una specie di igloo), in modo che rimanga tipo baldacchino e tolga almeno un po' di luce. Posizionare il lenzuolo direttamente la sera non si può, perché il Piccolo avrebbe caldo e si sveglierebbe prima ancora che con la luce. Nonostante tutte queste brillanti pensate, non è che si facciano vere dormite: consideriamo che le sette del mattino siano un ottimo risultato, ma più spesso il Piccolo si attiva prima delle sei. Noi, che non siamo mattinieri affatto, speriamo sempre che il prossimo alloggio abbia delle belle imposte scure, e nel frattempo puntiamo la sveglia nel cuore della notte.
Oggi siamo entrati in Nagorno Karabakh: sul viale principale di Stepanakert, pieno di soldati in divisa e mezzi blindati, una ragazza del posto ha salutato a gran voce il Piccolo, chiamandolo per nome. Ci eravamo conosciute, io e lei, due giorni fa a Halidzor, nell'ecovillaggio. Era mattina presto ed eravamo entrambe in giardino; lei perché le piace fare ginnastica all'alba. Io perché il Piccolo si era svegliato...




domenica 30 luglio 2017

meraviglie

Goris
Una delle meraviglie dell'Armenia è l'acqua. Quella del rubinetto è sempre sicura (almeno così speriamo, dato che ne abbiamo bevuta un po' ovunque, con l'unica precauzione di non darla al Piccolo). In più ci sono fontanelle ovunque. Ogni cento metri nelle cittadine, e perfino i più sperduti villaggi delle montagne, dove la gente dorme insieme alle mucche, hanno la loro fontanella di acqua, con l'usuale cornice di anziani che giocano a scacchi. Uno potrebbe non farci troppo caso. Si consideri, però, che le temperature sono molto alte, la Famiglia in Cammino beve come una famiglia di cammelli, e non avere il pensiero di caricare litri e litri di acqua in macchina è un bel sollievo. Dal canto suo, il Piccolo ha imparato a bere dal bicchiere, dalla bottiglia, dalla lattina. Forse il fatto che dimentichiamo regolarmente la sua tazza ha avuto un ruolo: i bambini, si sa, sono come cuccioli, e l'istinto di sopravvivenza è una bella spinta all'apprendimento.
Altra vera meraviglia sono le giostre. Non l'avremmo mai detto, ma in ogni paese c'è un luna park permanente. Nelle città grandi anche più d'uno. A Yerevan ne abbiamo visti almeno tre. I luna park sono solitamente tenuti bene e un giro in giostra costa l'equivalente di 50 centesimi o un euro. I minorenni della Famiglia in Cammino sembrano muniti (sì, anche il Piccolo) di una specie di radar, e quindi le attrazioni non ci sfuggono mai. La nostra preferita è l'autoscontro in acqua (che in Italia non avevamo mai visto), ma purtroppo non si trova sempre. Per chi se lo stesse chiedendo, non si tratta di pedalò, ma di barchette a motore con acceleratore, proprio tipo autoscontro. Roba da mandar fuori di testa gli adulti, figuriamoci le bambine.
Oggi siamo a Goris, vicini al confine con il Nagorno Karabakh. Abbiamo visitato la casa museo di Axel Bakunts, uno scrittore armeno ucciso dalle "purghe" di Stalin (Mamma, ma che bisogno c'era di ucciderlo? Non potevano parlarsi?) e poi il villaggio di Khndoresk, la cui parte antica è tutta scavata sul fianco di una montagna. Ci si arriva attraverso un ponte sospeso che mi dava le vertigini (il peggio è stato quando la Grande e la Media se ne sono accorte, perché hanno trovato la mia paura estremamente divertente e si sono messe a far dondolare il ponte. Le gioie della maternità). Poi abbiamo concluso la giornata alla giostre: un piccolo luna park in un giardino pubblico, con pista dell'autoscontro (purtroppo non in acqua) tutta per noi. Il Papà si è lanciato anche lui sulla macchina all'inseguimento delle bambine, io e il Piccolo siamo rimasti a bordo circuito a ballare sulla musica-spazzatura degli altoparlanti. Tutti e cinque a ridere come ubriachi. Evviva le meraviglie dell'Armenia.

sabato 29 luglio 2017

gola del diavolo e torta al cioccolato

Halidzor
La guida parla della Gola del Diavolo, poco distante dal nostro alloggio, come di una spettacolare formazione naturale con un canyon profondo, cascate e piscine di roccia, dove adulti e bambini si divertono a nuotare. Entusiasta all'idea di un bagno fresco e munita di costumi sotto i pantaloni, la Famiglia in Cammino oggi si è quindi diretta a queste pozze. Io per la verità subodoravo la fregatura, intanto perché l'acqua non è per niente il mio elemento, e poi perché insomma, un luogo idilliaco potrebbe mai chiamarsi Gola del Diavolo? Preferisco comunque unirmi all'euforia del gruppo e andiamo tutti insieme, asciugamani sulle spalle e Piccolo sottobraccio, verso l'accesso al canyon. Qui comincia il bello: dopo le prime due pozze, fangose e piene di gente a mollo, la roccia diventa molto ripida e scivolosa. Per arrivare sul fondo, dove ci sono le piscine più spettacolari, bisogna in sostanza rischiare l'osso del collo. Il Papà si sporge per cercare un passaggio minimamente sicuro, ma alla fine perfino lui cede le armi. Il percorso è davvero troppo ripido e tutto su roccia melmosa.
A questo punto rimangono due possibilità, entrambe spaventose: dichiarare la sconfitta e fare marcia indietro (ma avevamo incautamente promesso il bagno alla Media e alla Grande, che scalpitano) oppure entrare in una delle prime due pozze, che sono scure di fango, melmose, puzzolenti e piene di gente; i bagnanti peraltro sono tutti maschi, mentre le donne stanno al bordo e tengono in mano i vestiti dei mariti e figli; evidentemente sguazzare è considerata attività virile. Poco male: colgo la scusa per sottrarmi con destrezza e pongo il veto anche sul bagno della prole. Mai, mai, le mie figlie entreranno in queste pozzanghere. Il Papà ovviamente non è dello stesso avviso; mentre faccio questi pensieri lui si è già preparato per il tuffo, insieme alla Grande e la Media. Rimango fuori dall'acqua col Piccolo in braccio (almeno su di lui ho resistito) e cerco di non pensare agli spaventosi microrganismi, tutti patogeni, che in questo momento stanno assalendo le mie ragazze. Loro ovviamente sono entusiaste; del resto il bagno selvaggio si sposa bene con la piega che ha preso il viaggio negli ultimi due giorni: alloggiamo in un villaggio ecoturistico in cima ad una rupe, in casette di legno che circondano un grande giardino. Le casette sono a strapiombo sulla valle, e nel giardino razzolano due pavoni, insieme ad una cucciolata di cani, già adottati dalle nostre figlie, che passano appunto la giornata a rotolare sull'erba, assumendo su visi e vestiti un uniforme colore grigiastro. L'ecovillaggio  funziona anche come ristorante (con bei tavoli rustici sparsi sotto gli alberi) e al ritorno dalla gola ci troviamo in mezzo ad una festa. La Grande e la Media si buttano subito nella mischia e fanno amicizia con due bambine della loro età. Loro sono di origine armena ma vivono negli Stati Uniti con i genitori. La mamma mi si avvicina per chiacchierare: è nata nel villaggio qui vicino, poi ha studiato medicina a Yerevan; da 17 anni vive a New York e si occupa di ricerca sul cancro. Ogni anno, però, la famiglia si ritrova (saranno una cinquantina, sembra un pranzo di nozze a milioni di decibel); oggi tra l'altro è il compleanno di una delle bambine che hanno fatto amicizia con le nostre. Ci sono bambini di tutte le età che corrono in ogni direzione, anziani seduti che chiacchierano, ragazzi e adulti che fanno selfie in tutti gli angoli. La famiglia armena vuole assolutamente che anche noi mangiamo la torta al cioccolato. Oggi in mezzo a questo gruppo enorme, chiassoso e simpatico ci siamo anche noi.

venerdì 28 luglio 2017

alla ricerca del pisellino

Halidzor
Ci dirigiamo a est, verso il Nagorno Karabakh, sulla strada per l'Iran. L'area di Sisian è praticamente un immenso altopiano. Ai bordi della strada ci sono centinaia di arnie e minuscoli banchetti di vendita di miele. Dietro ad ogni banchetto c'è di solito un piccolo caravan attrezzato per dormire, oppure una tenda; tutti questi venditori sono dei "nomadi delle api", che d'inverno vivono nei loro villaggi (anche a decine, centinaia di chilometri di distanza) e d'estate si spostano per raccogliere il miele e venderlo. Non possono permettersi (o le distanze non permettono) il pendolarismo e quindi loro rimangono per mesi, qui, a bordo strada, in una vecchia tenda o una roulotte sgangherata, ovviamente senza servizi. Ci fermiamo al banchetto di una coppia di anziani. I bambini, si sa, aprono tutte le porte e quindi la Famiglia in Cammino viene invitata a mangiare un po' di frutta all'interno della tenda. Due letti, due sgabelli, niente che il Piccolo possa rompere. Lui peraltro se ne sta abbracciato al Papà. Sorride alla signora ma non vuole saperne di darle la mano. Molto più espansive sono le ragazze. La signora, una fila di denti d'oro, fazzoletto in testa e ovviamente nemmeno una parola in nessuna lingua (a parte l'armeno; ma a questo punto siamo noi a non seguirla), ci fa sedere e ci offre della frutta. Chiacchiera continuamente, sorride, porta mele minuscole (che la Grande e la Media apprezzano molto) e pesche. Le ragazze sono ammaliate in un attimo: Perché non lo facciamo anche noi, mamma? - chiede con insistenza la Media - Fare cosa, tesoro? - Ci compriamo una tenda e veniamo a vivere qui. Vendiamo miele, nessuno va più a scuola e stiamo sempre in campeggio - Temo di non essere pronta, tesoro...
La signora continua a farmi domande sui bambini. Io immagino che voglia sapere i loro nomi. Li proncuncio indicandoli uno ad uno e aggiungo le loro età. Lei però non è soddisfatta, continua a dirmi la stessa cosa, ma io non ho la più pallida idea di cosa stia chiedendo. Ad un certo punto si avvicina al Piccolo e sposta in un attimo pantaloncini e pannolino; vede il pisellino, esulta a gran voce e batte le mani. Non ero riuscita a farle capire che è un maschio...

giovedì 27 luglio 2017

una donna in pace

Yeghegnadzor
Amo le lavatrici. Dal Cammino (anzi: dai Cammini) ho imparato a portare pochissimi vestiti e a lavare regolarmente. Ma ho anche imparato la meraviglia di infilare il bucato del giorno in una macchina che farà il lavoro meglio di me, e senza che io debba fare fatica. Non ho nemmeno sensi di colpa ecologici: con il bucato di cinque persone, anche se si tratta di uno-due giorni, il cestello si riempie. Anche in questa pensione (come nell'appartamento di Yerevan) abbiamo la lavatrice a disposizione, nel bagno in comune con gli altri ospiti. Ora il nostro bucato è steso ad asciugare in terrazza, ed io non potrei essere più felice di così. Non mi importa di dover condividere il bagno, né che non ci sia l'aria condizionata (anche se i bambini apprezzerebbero - soprattutto il Piccolo, che si sveglia sudatissimo e assetato). Datemi una lavatrice e sarò una donna in pace. Così mi sento in questo momento. Ora io so bene che quella della lavatrice è una specie di fissazione. Ma so anche che qualsiasi madre con tre, due o un figlio, in viaggio o a casa propria, capisce benissimo quello che intendo.
Questa mattina visita al monastero di Noravank, uno dei più famosi dell'Armenia. Il nucleo più antico risale al nono secolo, mentre la maggior parte del complesso è del tredicesimo. Spiccano, tra gli altri dettagli, un bassorilievo di Cristo con gli occhi a mandorla (era il tempo delle invasioni dei Mongoli) e, sulla facciata di uno degli edifici principali, due scalinate di pietra, la cui salita rappresenta l'ascesa al Cielo, che solo i puri di cuore sono in grado di affrontare. La Grande e la Media evidentemente non hanno dubbi sui propri cuori, perché si lanciano immediatamente sui gradini. Vengono bloccate a metà salita dalle urla materne, e mestamente scendono ben prima di essere arrivate in cima; mugolano di disappunto a più riprese, ma a me questi gradini di pietra, che si arrampicano fin sulla chiesa senza corrimano, sembrano davvero troppo esposti. Contengo i lamenti acquistando una cartolina con l'alfabeto armeno: la Grande è decisa ad imparare la lingua locale per poterci aiutare nella lettura dei segnali stradali, che al momento presenta alcune difficoltà.
Nel pomeriggio visitiamo il caravanserraglio Selim, sull'omonimo passo montano a 2.400 metri di altitudine, e dello stesso periodo del monastero. Il Papà racconta alla bambine la storia dei mercanti che si fermavano a riposarsi lungo la Via della Seta. Racconta dei lunghissimi viaggi verso la Cina, di Marco Polo e del suo soggiorno alla corte del Gran Khan. La Grande è immediatamente affascinata. Guarda le mangiatoie di pietra e le sembra di sentire l'odore dei cavalli. Chiede se sia ancora possibile viaggiare a piedi dall'Europa alla Cina, suggerisce pacatemente l'acquisto del Milione. La Media percorre avanti e indietro il caravanserraglio, sentenzia che è solo una malga di pietra ed esce fuori a raccogliere fiorellini che sbriciola sulla testa del Piccolo. L'incredibile sta nel fatto che il Piccolo è pure contento. Sta seduto sull'erba, ad accarezzarsi la testa piena di polline, e ride a gola spiegata.

mercoledì 26 luglio 2017

stepanyorn

Yeghegnadzor
Prima tappa dopo Yerevan, e siamo già in un posto dal nome impronunciabile. La domanda, però, non è nuova; anzi, mi è venuta in mente più volte, nel corso dei nostri viaggi, alla ricerca di eremi sperduti e conventi sulle montagne: cosa può spingere un ragazzo di trent'anni a mollare tutto, tranne una veste lunga e un paio di ciabatte, per vivere da solo su una montagna? L'avrei chiesto oggi a  Stepanyorn, se non fossimo stati separati da un'evidente barriera linguistica.
Tutta la zona qui intorno è punteggiata di chiese e monasteri antichissimi. Abbiamo visto quel che rimane del monastero Tanahat: una chiesa in basalto nero, intorno alla quale nel Medioevo c'erano le aule di un'università; oggi solo muri caduti, sterpaglie e lucertole grandi come un braccio, che fanno impazzire la Media e la Grande. Nelle navate della chiesa, nidi di rondini che ci accolgono con un fortissimo pigolare. Poi ci siamo diretti al santuario di Arkaz, che ospita, in una minuscola sala dove si entra solo scalzi, un pezzetto della croce di Cristo. È qui che abbiamo incontrato Stepanyorn. Tutto nero (tonaca, capelli e barba) ma con occhi azzurrissimi, il giovane monaco ci ha letto la storia del santuario in inglese. Solo dopo le prime righe ci siamo accorti che il testo era scritto a lettere armene, e che quindi lui non capiva nemmeno esattamente cosa stesse dicendo (a tratti, in effetti, non lo capivamo nemmeno noi). Stepanyorn sa cantare in latino (e fa sentire alla Grande un pezzo di Canto Gregoriano) ma di inglese non parla una parola; sembra però molto contento di conoscere i bambini; benedice più volte il Piccolo e lo accompagna fin sul sarcofago che custodisce la croce; regala una busta di albicocche alla Grande e alla Media e ci accompagna a vedere la sua cella. È una stanza completamente spoglia: letto, tavolo e sedia. Là per là mi viene in mente sua madre. Mi chiedo come abbia preso la scelta del figlio di arrampicarsi in cima ad una montagna (qui intorno non c'è nulla, ma proprio nel senso di niente, per chilometri e chilometri: solo alture gialle) e chiudere ogni contatto con il mondo per custodire un pezzetto della croce di Gesù chiuso sotto una pietra. Mentre mi agito tra questi pensieri si avvicina l'ora di cena. Rientriamo nella macchina che abbiamo noleggiato questa mattina e torniamo verso la pensione di oggi. Ma cosa spinge un ragazzo di trent'anni a mollare tutto?

martedì 25 luglio 2017

prime volte

Yerevan
Dopo quattro mesi di gattonamento, sempre più spericolato e a velocità mai viste, il Piccolo sta conquistando la posizione eretta. Tutto d'un tratto ha abbandonato (quasi) del tutto l'andatura a quattro zampe, e si applica a camminare con la perseveranza di un ricercatore che sente di aver trovato la pista giusta. Cade, si rialza, procede con un'andatura degna del primo Charlot, e sorride sempre, come se stesse compiendo un miracolo. Un po' lo è, in effetti. Il bello è che questo miracolo è tutto armeno e tutto nostro. Se va avanti a questi ritmi, il Piccolo smetterà di barcollare in un paio di settimane; nonni, zii e amici vari lo rivedranno a cambiamento già avvenuto. Sapere di essere gli unici spettatori di questa rivoluzione ci rende più sopportabili alcuni inconvenienti: con il cibo, per esempio, siamo già nella fase "che non lo sappia la pediatra". Lungi dall'apprezzare la cucina armena, che invece è molto interessante (ma su questo anche la Media avrebbe qualcosa da dire), il Piccolo segue le orme della sorella maggiore: tra gli aneddoti della Famiglia in Cammino rientra la dieta "pane e patate fritte" che aveva seguito la Grande  otto anni fa in Albania, il viaggio estivo dell'epoca. Il Piccolo si sta comportando più o meno allo stesso modo. Rifiuta perfino il riso in bianco e chiede a gran voce solo patatine, possibilmente accompagnate da Coca Cola (un'infausta, recente scoperta). Io continuo a ripetermi che non sarà un mese di cibo-schifezza a rovinarlo, e mi pulisco la coscienza offrendogli, fra un pasto e l'altro, abbondante frutta. Coltivo la speranza di una svolta e mi auguro che il Piccolo cambi idea sui piatti armeni. Vero è che, all'epoca, la Grande aveva perseverato fino alla fine. Ma si sa che ogni bambino è diverso. Oltre agli esperimenti su due zampe, tra le "prime volte" del Piccolo in questi giorni ci sono anche le giostre (così come era stato per la Grande in Albania): incuriositi dalle foto sulla guida, oggi siamo andati a vedere la ferrovia per bambini di Yerevan, realizzata in epoca sovietica a scopo didattico. Come tutte le vestigia sovietiche, anche la ferrovia è fatiscente, ma sulla locomotiva campeggia ancora la stella rossa e i binari sembrano quelli di un vero treno, il che rende il tutto davvero affascinante, inclusi i rumori poco rassicuranti del treno in movimento. Intorno alla stazione c'è un vecchio luna-park, dove ci siamo fermati una mezz'ora, le ragazze in autoscontro, il Piccolo su un'automobilina a gettoni. In giornata, visita al museo dei manoscritti antichi e a quello di storia dell'Armenia. La Famiglia in Cammino, si sa, è eclettica.

lunedì 24 luglio 2017

non potevano parlare

Yerevan
Alloggiamo in un gigantesco, fatiscente palazzo di fabbricazione sovietica. A parte le vecchiette che vendono frutta in cortile, gli anziani schierati in fila per due a giocare a scacchi, i manifesti pubblicitari attaccati e strappati per le scale (scale che definire pericolanti è un eufemismo), la cosa più divertente è l'ascensore: una scatoletta minuscola e traballante, ma questo sarebbe niente; il fatto è che le porte si aprono e si chiudono nel giro di pochissimi secondi; poiché non ci sono fotocellule (figurarsi), alla Mamma chiudifila è già toccato più di una volta di sentirsi strizzare, fra le risate dei quattro quinti della famiglia (anche il Piccolo, sì). Uno potrebbe chiedersi se, dato l'elevato rischio di lussazione di una spalla materna, non sia preferibile salire le scale. Ma poiché siamo al quinto piano, le scale sono quelle che sono e abbiamo il passeggino, la risposta è piuttosto chiara.
Dunque, compiuto anche questa mattina il salto fuori dall'ascensore, e volendo controbilanciare le scorribande di ieri con una visita culturale, ci siamo diretti al monumento che ricorda il genocidio armeno. Il complesso, in posizione dominante sulla città, è costituito da un obelisco a punta, alto più di quaranta metri (la guida lo definisce "proteso verso il cielo") e un grande mausoleo di pietra che custodisce una fiamma perpetua. Ogni anno, nel giorno in cui si celebra la ricorrenza (24 aprile), il mausoleo si riempie di rose. Oggi c'era solo qualche mazzo deposto a terra. Intorno, una foresta di sempreverdi piantati da governi, delegazioni e ministri di tutto il mondo a ricordo dell'olocausto armeno. Il tutto, ovviamente, ha richiesto una serie di spiegazioni per la Grande e la Media, che sono rimaste vivamente impressionate dal monumento. Provavano a leggere i nomi dei villaggi armeni rastrellati con le armi, cercavano le piante messe a dimora da italiani, si fermavano incantate davanti al fuoco eterno. Io me la cavo abbastanza bene sull'esposizione dei fatti. Parliamo anche della Prima Guerra Mondiale, cerchiamo analogie e differenze tra questo massacro e la shoah. Spiego anche l'origine di un termine difficile è terribile: "genocidio". Mi blocco, però, di fronte alla domanda più difficile; me la pone la Grande: Non potevano provare a parlare, invece di ammazzare donne e bambini?

domenica 23 luglio 2017

vardavar

Yerevan
Il vicino di tavolo del bar questa mattina ci aveva avvertito: Oggi è la festa d'estate, attenti alle secchiate d'acqua! Noi avevamo anche letto di questa tradizione sulla guida, ma senza darci troppo peso. Chi mai potrebbe lanciare un gavettone gelido su una simpatica famiglia a spasso? Quindi la prima doccia ci coglie impreparate, la Media e me: un giovanotto armato di secchio corre fuori dal suo negozio e ci prende in pieno con l'acqua. Là per là penso che ho la macchina fotografica al braccio, che la Media si sente male (ogni inizio di viaggio è salutato con uno o più episodi di vomito: oggi tocca a lei) e che lo schizzo avrebbe potuto investire il Piccolo, e quindi urlo. Il ragazzo evidentemente non capisce nulla, ma corre a rifugiarsi nel negozio. Anche perché il Papà, pure lui preoccupato per la Media, rincara la dose di imprecazioni. Dopo poco capiamo che l'intera città è in preda ad una specie di delirio: ragazzi armati di secchi corrono in tutte le direzioni, la gente si affaccia al balcone e butta acqua sugli sconosciuti che passano di sotto, ai semafori vengono prese di mira perfino le auto con i finestrini abbassati. Oggi Vardavar è la festa della Trasfigurazione e cade 14 settimane dopo Pasqua, ma in origine era la festa pagana di Astghik, dea della fecondità e della bellezza. Una specie di Afrodite, insomma, il cui culto era associato alla natura lussureggiante e all'estate. Sia come sia, oggi sottrarsi ai gavettoni è impossibile in tutta l'Armenia, a meno di non tapparsi in casa. Rimaniamo in appartamento per qualche ora, finché la Media non si ristabilisce; pisolino, sali reidratanti e poi sia lei sia la Grande fremono per unirsi alla baraonda. Gettare e gettarsi acqua addosso, per strada e tutte vestite, è una specie di apoteosi del proibito. Noi tentiamo una blanda resistenza, ma poi acquistiamo due pistole ad acqua e ci dirigiamo in piazza della Repubblica, che è il centro del delirio perché dominata da un'enorme fontana, per l'occasione diventata piscina collettiva. Le ragazze sono in visibilio. Si lanciano verso la fontana, svuotano e riempiono i serbatoi a ritmi forsennati, scuotono le chiome gocciolanti e strizzano le gonne. Si uniscono perfino ad una banda di ragazzini scalmanati e sono a buon diritto partecipi della baldoria. Naturalmente anche io e il Papà siamo bagnati dalla testa ai piedi; il Piccolo viene fortunatamente risparmiato. Mentre torniamo a casa prima di cena, per asciugarci e stendere i vestiti, io penso che per fortuna Vardavar è solo una volta all'anno. Alla Grande e alla Media, invece, l'Armenia sembra già un paradiso.

sabato 22 luglio 2017

previsioni errate

Yerevan
Rimaneva il terrore del volo: fatto a tutti il vaccino per l'epatite, inserito un ciuccio di riserva in ogni tasca, il viaggio di andata era la preoccupazione più grossa. Il primo motivo è che - ma sì, confessiamolo - un po' di paura di volare mi è sempre rimasta, e questo nonostante la baldanza di chi dice, statistiche alla mano, che un pezzo di autostrada in macchina è ben più pericoloso di una tratta di aereo. È una frase che uso spesso anch'io; ma vallo a spiegare al mio inconscio, sempre saldamente ancorato a terra.
Il secondo motivo di terrore erano gli orari del volo: partenza da Bergamo alle 4.40 per Kiev. Due ore e mezza per aria (sì, ma il tratto di autostrada... eccetera), stop di due ore, poi altre due ore e mezza da Kiev a Yerevan. Il tutto in notturna, senza mai dormire (siamo usciti di casa a mezzanotte, giusto una decina di minuti dopo aver raffazzonato il bagaglio) e con il Piccolo da gestire sempre in braccio, poiché lui ancora non ha diritto al posto.
Contrariamente a qualasiasi previsione, il Piccolo ha urlato di gioia entrando in aereo, ha teso un'inutile imboscata ai (pochi) capelli del signore seduto davanti, ha deciso che le cinture di sicurezza sono noiose, e ha trascorso quasi tutto il viaggio dormendo. Io sono scesa con le gambe totalmente anchilosate e un bisogno tremendo di far pipì: per tutto il tempo non ho potuto muovere un muscolo (figuriamoci alzarmi dal posto) ma almeno ho evitato il terribile stress delle urla del neonato in cabina. Sempre contro qualsiasi previsione, la parte difficile è al momento in corso: sono le dieci e mezza e lui non vuole saperne di chiudere occhio, nonostante due ore di tentativi materni (invero non sempre pazienti). La Grande e la Media sono a letto da un pezzo, perfino il Papà ha ceduto. Io, a forza di cullare il dolce angioletto, adesso ho le braccia a pezzi, e prego di non trascorrere un'altra notte insonne: fuori Yerevan ci aspetta.

venerdì 21 luglio 2017

nuovi passi

In effetti non ricordo di aver mai terminato un bagaglio. Arriva, molto prima della conclusione, il momento in cui sono stufa. Allora infilo nella borsa arancione le ultime cose che ho in mano e decido che va bene così. Quel momento è appena arrivato. E coincide, tra l'altro, con l'ora di infilarsi le scarpe e andare a chiamare i bambini: iniziamo un nuovo viaggio, diretti in Armenia. Stanotte voliamo su Kiev e poi a Yerevan.
Niente peluche nel bagaglio di quest'anno: né la Grande né la Media ne hanno fatto richiesta. E nemmeno ci sono, con sollievo di entrambe, i libri per le vacanze. In compenso abbiamo le creme antirughe per la Mamma, ciucci infilati in ogni angolo (ogni anno ho un terrore che sovrasta tutti gli altri: stavolta il terrore è smarrire il ciuccio del Piccolo) e Voltaren che ci accompagna dei tempi del Cammino. Sempre dai tempi del Cammino conservo l'abitudine di portare pochissimo vestiario: pantaloni lunghi e corti, due magliette a testa, e l'intenzione di fare il bucato ogni sera, perché niente è più bello che muoversi leggeri. Ripartiamo dal punto in cui ci siamo interrotti l'anno scorso: Mi sono iscritto a danza, l'ho fatto per la panza è ancora la nostra canzone preferita, e il Piccolo continua a ridere ad ogni assalto, non sempre amichevole, delle sue sorelle. Altre cose che lo fanno ridere sono i cani, le pentole sbattute l'una contro l'altra e il solletico sotto le ascelle. Negli ultimi giorni, al mare in Toscana, il Piccolo ha anche cominciato a camminare: è proprio l'ora di partire di nuovo.