lunedì 6 agosto 2018

i soldati del confine

Sighnaghi
Abbiamo il vago sospetto che il vomito a getto del Piccolo, iniziato appena arrivati in albergo a Tsalka e poi protrattosi per tutta la notte (notte terribile, come si può facilmente intuire), non fosse dovuto solo al viaggio in macchina a zig-zag: oggi anche la Media ha passato la giornata fra un conato e l’altro. Avrà vomitato 30 volte. Forse ha influito il fatto che, sottovalutando la situazione, siamo andati in macchina a vedere il monastero di Davit Gareja, distante un centinaio di chilometri, di cui gli ultimi 50 di strada dissestata. Non la peggiore delle strade georgiane, ma comunque una strada georgiana in cattive condizioni. 
Il monastero è stato edificato fra il sesto e il nono secolo, ed in parte scavato nella roccia. Collegate da sentieri a strapiombo (crinale montuoso estremamente panoramico) ci sono decine di celle, chiesette, locali di servizio. Il complesso si trova esattamente su confine con l’Azerbaijan, anzi in parte in territorio azero. La competenza dei due Stati è tuttora oggetto di disputa ed infatti tra le rovine (solo una parte del monastero è ancora in uso) ci sono soldati dell’una e dell’altra parte con tanto di fucili spianati. 
Arriviamo a destinazione dopo quasi due ore di tragitto, e numerose foto ai paesaggi intorno, che sono semidesertici. Negli ultimi 50 chilometri si incontra un solo villaggio, si passa fra due laghi salati e si osservano moltissimi rapaci, alcuni dei quali sembrano sfiorarci.  
Purtroppo, nel momento in cui scendiamo dalla macchina, ci rendiamo conto che la Media sta peggio che al risveglio. Visitiamo la parte bassa del monastero, ma le grotte affrescate si trovano in cima ad un serie di sentieri molto ripidi ed assolati. Decidiamo quindi di dividerci: il Papà rimane alla partenza col Piccolo e la Media (che non è in condizione di camminare e deve stendersi sul sedile dell’auto) mentre io salgo con la Grande. Al nostro ritorno, sarà il Papà a salire. Partiamo con passo baldanzoso ed iniziamo la salita. È straordinaria la vastità dell’area su cui sorge il monastero. Salendo si ha una vista aperta, con straordinari panorami aridi. La parte alta del complesso si chiama Udabno, che significa appunto “deserto”. Dato il problema dei turni sappiamo di non avere molto tempo, e quindi decidiamo di andare a vedere soltanto la grotta degli affreschi; sono del nono secolo e si trovano in un caverna scavata nella montagna, il che li rende unici. Ovviamente, però, come ovunque in Georgia, non esiste nessuna indicazione; io e la Grande vaghiamo su una vastissima rete di sentieri ripidi e scivolosi, senza trovare la grotta giusta. Arriviamo in cima alla montagna. Deserto da una parte, ed è Georgia. Lo stesso deserto dall’altra, ed è Azerbaijan. Ma degli affreschi che cercavamo nessuna traccia. Proseguiamo ancora, ci infiliamo in tutti i cunicoli, ma senza risultato. Io sono piuttosto nervosa perché il tempo passa, devo dare il cambio al Papà e voglio tornare a vedere come sta la Media. Tra l’altro, siccome siamo proprio sulla linea di confine, tutta la zona è sorvegliata da militari, e la vista dei fucili non mi piace. Meno ancora se ho una bambina per mano. Ad un certo punto un soldato azero ci intima l’alt con voce nient’affatto amichevole, e ci fa segno di tornare immediatamente indietro. Rinuncio a vedere gli affreschi, sperando che ci riesca il Papà. La Grande non sembra affranta: le è piaciuta la passeggiata e trova avventuroso l’incontro coi soldati. Purtroppo per scendere impieghiamo parecchio, anche perché il sentiero è scivoloso. La Media sta ancora male, quindi il Papà rinuncia al suo turno; ci infiliamo in macchina e ce ne torniamo a Sighnaghi. Gli affreschi non li abbiamo visti, ma speriamo che per domani mattina il virus abbia fatto il suo corso. 

1 commento:

  1. l'esperienza è importante comunque.in bocca al lupo per la media. pap

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