giovedì 8 agosto 2019

svuotando la valigia arancione

Tiro fuori sempre prima gli spazzolini; lavarsi i denti è importante. E allo stesso modo è importante mantenere la routine, tornare alla normalità, rientrare. Mi viene in mente la sera in cui ho lavato i denti al Piccolo nel bagno del campo beduino di Dana; un bagno minuscolo e lontanissimo dalla nostra tenda nera, che era in bilico sul burrone, piena di formiche e di chissà cos’altro. Da lì la moschea del villaggio si sentiva appena. Oggi, imboccando lo svincolo dell’autostrada, il Piccolo ha chiesto quando sarebbe stato il prossimo canto di moschea, e come mai non si vedesse nessun minareto. Quando gli ho risposto che non ci saranno più invocazioni ad Allah, almeno per un bel pezzo, è rimasto interdetto. Ma poi ha pensato ai suoi giocattoli, il brutto peluche verde che gli tiene compagnia nel letto in Italia, e ha sorriso di entusiasmo: il mondo dei bambini è un eterno presente.
Tiro fuori il mio filo per stendere, le mollette, un rimasuglio di detersivo che non ho voluto buttar via. Viaggiamo leggeri, laviamo e stendiamo ovunque. C’è una marca di detersivo che in Italia non trovo, ma che ho comprato in Georgia, in Armenia, in Giordania, in un minuscolo flacone arancione. I panni stesi sulle nostre teste in albergo; la macchia sulla maglietta appena messa, che in viaggio è un po’ più grave, perché la lavatrice non c’è; ma tanto non c’è nemmeno la scuola, non ci sono impegni, nessuno ci conosce, a chi importa della macchia. Alcuni vestiti, sporchi in maniera irreversibile, li ho buttati via. Il bagaglio, al ritorno, è sempre un po’ più leggero. Non ci sono le scarpe da ginnastica dei bambini: già piccoline in partenza, piene della sabbia di Petra, indurite dal sale del Mar Rosso, sono rimaste là. Dal bagaglio della Famiglia in cammino, quello che faceva ammattire i tassisti, esce addirittura un set di pentole; e piatti e posate di plastica: quando possiamo affittiamo un appartamento; spesso costa l’equivalente di una camera, e in più ci permette di risparmiare sul ristorante. Il Papà riesce ovunque a preparare pasta con pomodoro fresco e formaggio; lo fa per la Grande, la Media e il Piccolo, che senza pasta proprio non riescono a stare. Souvenir della Giordania non ce ne sono: come sul Cammino, l’ordine è non caricare. Gli oggetti aggiungono semplicemente peso; quello che conta davvero sono i ricordi: il giorno in cui il Piccolo mi ha chiesto se il deserto fosse diventato la nostra casa; e non c’era panico nella sua voce, solo curiosità. Il giorno in cui la Media, dopo una lunghissima giornata camminando a Petra, ha preso il Piccolo sulle spalle, perché lui non ce la faceva più, e noi lo avevamo già portato tanto. Il giorno in cui la Grande ha iniziato a spalmarsi con il fango del Mar Morto, prima che tutti gli altri trovassero il coraggio. 
Dalla valigia, una gigantesca borsa arancione, escono gli ultimi pannolini: il Piccolo non ne ha più bisogno, nemmeno di notte. Che il grande passaggio sia avvenuto proprio durante un viaggio non è poi così strano: in fin dei conti lui ha imparato a camminare in Armenia. 
Le pinne che ci hanno portato dentro al Mar Rosso; la mia maschera che lascia entrare davvero troppa acqua. La maschera facciale del Piccolo, che ha scoperto i ricci, le stelle marine, e centinaia di pesci diversi, e la zia di Nemo, a strisce gialle. Quando mette la maschera riesce a stare a galla senza braccioli, e quindi adesso tenta di scappare anche in acqua. I pantaloni lunghi per me e le ragazze, perché la Giordania è pur sempre un paese musulmano: niente calzoncini corti, per nessuna; le felpe che non abbiamo usato mai, nemmeno una volta, se non per l’aria condizionata in aereo. Ma adesso il volo è atterrato. I bambini sono felici. La Media esulta: finalmente domani potrà correre in libreria a comprare il prossimo volume della saga di Harry Potter. Cerco di scacciare la malinconia per il viaggio che avevamo atteso tutto l’anno e che oggi si conclude. Niente più canto di moschee, hummus a colazione; niente più paesaggi bruciati dal sole. Eppure i bambini hanno ragione: l’unica scelta possibile è continuare a camminare, anche qui. 
Buon cammino a tutti. 

mercoledì 7 agosto 2019

il canto delle moschee

Madaba
Il Piccolo adora le moschee. Ama la loro architettura, col minareto sempre un po’ più in alto delle costruzioni circostanti. Ama le luci di cui spesso sono decorate, e che brillano di notte più delle insegne dei negozi. Ama soprattutto la voce del muezzin, che scandisce ovunque la giornata. A dir la verità non penso che abbia capito bene cosa sia una moschea, perché tende ad associarle ai numerosi castelli che abbiamo visitato durante il viaggio. Il dialogo che segue si ripete varie volte al giorno:
- Mamma! Mammaaaa, guarda! Quel castello è una moschea?
- Sì, amore, è una moschea, ma non è un castello. Il castello è un’altra cosa...
- Mamma, ma a cosa serve una moschea?
- La gente ci va per pregare…
- Perché adesso la moschea non canta? Quand’è che canta? 
Se invece è ora di preghiera, e quindi il canto si sente, invariabilmente il Piccolo ci avverte: - Ascoltate! La moschea sta cantando! Cosa canta, mamma? 
Evitiamo di ripetere il canto per strada, nel timore che i passanti fraintendano, ma nel chiuso delle nostre stanze abbiamo ripetuto più volte le parole del canto delle moschee. In macchina da oggi non potremo più farlo, perché l’abbiamo restituita all’autonoleggio. Domani all’aeroporto andremo in taxi; la Kia, nel frattempo, avrà bisogno di una bella lavata. 
Anche la Grande e la Media hanno subito il fascino del mondo musulmano: hanno imparato qualche frase in arabo, hanno mille curiosità sull’Islam e non smettono di guardare le donne velate. Dopo mille esitazioni hanno imparato ad apprezzare anche il cibo. Continuano a chiedere spaghetti e pizza, ma anche qui hanno alcuni piatti preferiti. Il ristorante di stasera lo ha scelto la Media; una bettola per locali: pollo, riso piccante, divanetti per terra e niente posate. 
Mentre rientriamo in albergo, sentiamo le moschee cantare. La gente stende i tappetini per terra, dove capita, e prega. Il sole è appena tramontato. 

martedì 6 agosto 2019

meravigliosamente relativo

Aqaba
Il viaggio in Giordania è stato caratterizzato da forte nomadismo, come piace a noi. Massimo tre, più spesso una o due notti nello stesso posto, tanto che i nostri figli a volte si sono lamentati di questo continuo spostarsi. I bambini crescono in altezza, e per questo hanno bisogno di radici. Ad Aqaba siamo ormai da quattro giorni, e già ci sembra di essere autoctoni. Il Piccolo chiama “casa” il minuscolo appartamento in cui alloggiamo. C’è un fornello con bombola arrugginito, il bagno si allaga ad ogni singola doccia e in giro si vede pure qualche scarafaggio, ma lui si lamenta solo perché non ha giocattoli. Il resto non lo vede: è casa. Ha anche imparato a fare capolino nella stanzetta del custode, facendosi regalare ogni volta un lecca lecca. Il lecca lecca viene prontamente sequestrato dalla Madre, perché fa male ai denti, e ogni volta il Piccolo ribatte: Ma io mi ero affacciato a salutare apposta…
Alla spiaggia libera numero 3, dove siamo tornati più volte in questi giorni, ormai la gente viene a salutarci. Appena arriviamo ci prestano un paio di tappeti da stendere all’ombra (probabilmente, così mal equipaggiati, facciamo un po’ pena) e ci offrono un tè preparato sui fornelletti che i giordani portano da casa in spiaggia. Un ragazzo conosciuto l’altro giorno, che ha uno zio in Norvegia e il sogno di trasferirsi in Europa, oggi si è avvicinato e ha indicato la Grande e la Media: Le vostre figlie - mi ha detto - sono bellissime. Sono chiare come pesci e dolci come gattini. Stateci attenti. Poi ha imbracciato le pinne e si è diretto verso il Japanese Garden, una formazione corallina dove bazzicano anche le tartarughe, che noi purtroppo non siamo riusciti a vedere. Abbiamo però affrontato la nostra seconda immersione, questa volta a 18 metri di profondità, entrando nel relitto di un aereo. Le guide hanno più volte fatto i complimenti alle ragazze, che sono state all’altezza della situazione; la Media ha avuto un problema con la maschera, ma non ha fatto una piega ed è riuscita a cambiarla mentre era in acqua. La Grande ha ricevuto in regalo la collana che un istruttore si è sfilato poco dopo l’immersione: Così - le ha detto - ti ricorderai della Giordania
La sera ci sentiamo a casa anche nel ristorante economico dove siamo andati tre volte. Oggi, dopo cena, ci hanno regalato il dolce per tutti: mutaqqab, a base di pasta sfoglia, tantissimo zucchero (i dolci arabi possono essere stucchevoli) e ricotta. Per i vostri figli - ci ha detto il cameriere - che sono davvero educati. 
Oggi, peraltro, siamo andati a mangiare molto tardi; prima di cena, a fine giornata, ci siamo fatti preparare un narghilè alla mela sulla spiaggia (qui i narghilè sono praticamente ovunque) e ci siamo goduti il tramonto. Mentre guardavamo il sole sparire dietro le colline dell’Egitto, e intorno a noi imperversava il trambusto delle famiglie giordane con le loro grigliate, si è avvicinato un altro ragazzo con cui abbiamo a volte scambiato qualche parola: Volevo salutarvi - ha detto - e farvi i complimenti. Siete una bella famiglia. I bambini sono molto educati; non li ho mai sentiti urlare, è incredibile.
Aspiro un po’ più forte, l’acqua della pipa gorgoglia. È la terza volta, solo oggi, che qualcuno ci fa i complimenti per i bambini. Mi rendo conto che qui sembriamo molto chiari di pelle, quando in Italia abbiamo la carnagione scura. Qui siamo una famiglia piccola, in Italia spesso i più numerosi siamo noi. Qui siamo i più silenziosi, in Italia ci facciamo sempre riconoscere. Poco, molto, chiaro, scuro. Come possiamo essere diversi, ma a casa anche qui. Com'è tutto meravigliosamente relativo. 

lunedì 5 agosto 2019

la zia di nemo

Aqaba
La Famiglia in cammino è ufficialmente entrata in mare. Oggi le donne del gruppo hanno affrontato la loro prima immersione con bombola. Il Papà, da tempo dotato di brevetto e quindi meno desideroso di sperimentare, è rimasto sulla riva a rimpinzare di pesche il Piccolo, purtroppo rientrato in una stressante fase di alimentazione fruttariana. 
La Grande e la Media erano fiere e baldanzose. Loro, del resto, sono già in grado di scendere diversi metri sott’acqua in apnea, e sanno compensare bene col naso la pressione nelle orecchie. Hanno solo avuto bisogno di aiuto per indossare la bombola, che non avrebbero avuto la forza di trasportare dalla pensilina alla riva. Io, al solito, le seguivo passo passo, ostentando tranquillità per nascondere lo spavento mortale di cui ero preda. Per fortuna nessuno è in grado di leggere nel pensiero, perché credo di aver maledetto varie centinaia di volte il momento in cui ho dato il mio consenso. Ovviamente, però, ho indossato la mia miglior faccia da nessun problema, penso io a voi e intanto arrancavo sotto il peso della bombola, della zavorra, soffocata dalla muta, impedita dai calzari. La vestizione del sub mi è parsa la cosa più complicata del mondo. Ma il vero momento di panico è stato quando l’istruttore mi ha dato la spinta per mettere la testa sott’acqua: diciamocelo, è un atto contrario all’istinto di sopravvivenza. Il bello dei figli, però, è che ci spingono a fare cose che mai avremmo pensato potessero interessarci; e solo dopo ci lasciano scoprire che ci siamo divertiti anche noi. Qui nel Mar Rosso, in effetti, sott’acqua c’è un vero paradiso (sempre che uno riesca per qualche minuto a dimenticare l’esistenza del pesce pietra), con pesci e coralli di ogni forma e dimensione, numerosissimi e nemmeno troppo spaventati dall’uomo. La costa, inoltre, è piena di relitti di ogni forma, alcuni dei quali lasciati affondare di proposito e adesso pieni a loro volta di coralli; ieri ed oggi, per esempio, sono bastati i nostri boccagli e le nostre maschere (nella mia entra pure l’acqua) per andare a vedere una nave e perfino un carro armato, sul fondo a pochi metri dalla spiaggia. Oggi la Media aveva un istruttore solo per sé, un altro seguiva me e la Grande. Alla fine l’immersione è durata poco meno di un’ora per dodici metri di profondità. 
Nel frattempo, anche il Piccolo si cimenta con la visione subacquea. Finalmente si è convinto ad indossare la maschera che gli abbiamo comprato, con la quale respirare è facile perché ha il boccaglio incorporato e copre tutto il viso. Una rivelazione: i coralli sono talmente vicini che anche lui è riuscito a vedere i pesci colorati, salutandoli con cenni e urla. Gli avevamo assicurato che avrebbe visto anche Nemo, protagonista di uno dei suoi cartoni animati preferiti. Nemo, però, oggi non si è avvicinato alla riva. 
- Mamma - mi ha detto il Piccolo quando siamo usciti tutti dall’acqua - perché non c’era Nemo?
- Non lo so, amore… forse era andato a nascondersi nell’anemone, insieme al suo papà…
- Però ho visto un pesce a strisce gialle… gialle, non bianche… era quello Nemo?
- No, amore, Nemo è arancione con strisce bianche.
- Mmmm. Io ne ho visto uno a strisce gialle. Forse era la zia di Nemo. 

domenica 4 agosto 2019

pesce pietra e i suoi fratelli

Aqaba
Senza dubbio c’entra il fatto che l’uomo moderno si è irrimediabilmente allontanato dalla natura. Può darsi pure che sia una mia personale paranoia. Fatto sta che, dovunque io mi diriga nel mondo coi miei figli, trovo sempre ad attendermi un animale sconosciuto e mortale. Dopo la cubomedusa australiana, le zanzare cingalesi, gli scorpioni del deserto, il mio nuovo nemico ha un nome apparentemente innocuo: pesce pietra. Cosa c’è di più innocuo di una pietra? Una grigia, informe, immobile pietra? Eppure l’altro giorno, quando cercando su internet i migliori siti per lo snorkeling mi sono imbattuta nel pesce pietra, ho sentito gelarsi il sangue. Il maledetto, oltre a mimetizzarsi perfettamente con i colori della barriera corallina, che qui è davvero a pochi metri dalla riva, possiede aculei con relativo veleno mortale. Il veleno viene iniettato a scopo difensivo e a pressione, ovvero inoculato soltanto se gli aculei vengono calpestati o toccati con le mani. La miglior misura di sicurezza, quindi, è entrare in acqua sempre con le scarpe. Quelle che i bambini hanno usato per i tour nel deserto sono veramente ridotte male, tanto che le avevo già destinate al cassonetto: per fortuna non le avevo ancora buttate via, e quindi le ho riconvertite all’uso in acqua. Siamo piuttosto ridicoli ad entrare in mare con le scarpe da ginnastica, ma in compenso ci difendiamo dal nemico. Mi sento inoltre fortemente in colpa per aver permesso ai bambini, il primo giorno, di bagnarsi scalzi. Il destino ci è stato favorevole, o forse il nemico non si era ancora accorto del nostro arrivo; comunque sia, non è successo nulla, ma per compensare quell’atto di incoscienza ho vietato a tutta la famiglia di stare anche in prossimità dell’acqua senza le scarpe. Sia mai che qualche disgraziato pesce pietra non decida di andare a vedere com’è il bagnasciuga. Va detto che le ragazze di solito entrano in acqua con maschera e pinne, e quindi troppe raccomandazioni non sono necessarie. Ma trasmettere un po’ di angoscia materna è sempre un modo efficace per obbligare alla prudenza, e quindi non mi stanco di ripetere che barriera corallina significa anche pericolo. Il maledetto pesce pietra, tra l’altro, presenza fissa nei miei incubi di questi giorni, è in buona compagnia; non mortali, ma comunque pericolosi sono anche i coralli stessi (alcuni tagliano se solo li si sfiora), le meduse (qui particolarmente urticanti, tanto da causare ustioni) e, non ultimo, il pesce leone, che ha ben 18 pinne dorsali aguzze come pungiglioni, e relativa tossina velenosa. Pesci leone, tra l’altro, le ragazze ne hanno già visti parecchi quando si sono immerse. Oltre a un paio di barracuda. Piccoli, ma sempre barracuda. Certo nuotare nel Mar Rosso ha un grande fascino; ma anche la riviera adriatica ha il suo perché…

sabato 3 agosto 2019

spiaggia libera numero 3

Aqaba
La temperatura è la stessa, anzi forse qui c'è perfino più caldo. Eppure ci fa uno strano effetto passare in un giorno dal deserto di Wadi Rum al Mar Rosso. Di fronte a noi adesso c’è un pezzettino di Israele, e poi la costa egiziana. Nel mezzo, la barriera corallina, che pare sia più bella dall’altro lato, ma sempre di barriera corallina si tratta. Non per nulla la Famiglia in cammino è arrivata in Giordania attrezzata di maschere e pinne per tutti, incluso il Piccolo, il quale al momento non ne vuole sapere e preferisce paletta e secchiello. 
Poiché si avvicina la fine del viaggio, e anche la fine delle finanze, optiamo per la spiaggia libera, e qui ci troviamo in mezzo a decine di famiglie giordane con relativi numerosissimi figli. Ma non è più questo a stupirmi; il fatto è che vedere come i giordani arrivano in spiaggia è qualcosa di non paragonabile con il nostro concetto di andare in spiaggia. È molto più vicino alla nostra idea di trasloco. Io ho la scusa del fatto che sono in viaggio, e quindi non posso avere molti oggetti con me; ma anche a casa, quando vado al lago, mi sento una madre previdente e organizzata quando mi ricordo il telo grande da stendere per terra. Niente a che vedere con l’organizzazione delle famiglie di qui. La madre giordana arriva decisa, curva sotto il peso dei bagagli e dei bambini piccoli, e comincia ad allestire un accampamento: stende per prima cosa un paio di enormi kilim. Ci sistema sopra qualche materasso di gomma piuma. Accomoda alcuni cuscini rigidi che facciano da schienale. Intorno a lei comincia a sciamare una moltitudine di creature saltellanti, e la madre giordana non si scompone; mentre io ho spedito i miei figli al corso di nuoto prima possibile, in modo da liberarmi di pensieri e braccioli, la madre giordana estrae da una borsa e gonfia salvagenti a ripetizione: abbiamo notato che molti, anche adulti, non sanno nuotare. Assegnata una papera gonfiabile ad ogni figlio, la madre giordana procede imperturbabile: mentre io ho portato la bottiglia da un litro e mezzo d’acqua, già diventata brodaglia nel tragitto dal parcheggio al bagnasciuga, lei dispone all’ombra un contenitore termico da venti litri, ovviamente munito di pratico rubinetto. Mi sento già annichilita e nel frattempo arriva il padre di famiglia giordano. Mentre io considero fondamentalmente scocciante mangiare al mare, e quindi accampo ogni scusa che possa condurre al digiuno di famiglia (ma il Papà mi ostacola fieramente, armandosi in autonomia di panini per tutti), il padre giordano dispone sui materassi, preventivamente sistemati dalla moglie, chili di carne, pane, verdura; mentre la moglie, serafica, infila cipolle nello spiedino, il padre giordano monta e accende il barbecue portatile che ha estratto poco prima dall’auto e comincia ad arrostire sul fuoco qualsiasi cosa. Il tutto raggiunge la sua apoteosi il venerdì sera (venerdì è il giorno festivo dei musulmani): ieri, alla spiaggia libera numero 3, sud di Aqaba, pareva che ci fosse una gara di barbecue, con relative fiamme alte. Ma anche oggi non si scherzava. C’è perfino chi ha portato da casa il proprio personale narghilè, in modo da rilassarsi mentre cucina. 
Il tutto, soprattutto se mi metto nei panni della madre giordana, assume i contorni della tortura, perché la giornata in spiaggia assomiglia ai lavori forzati. Non si dimentichi, inoltre, che pure il bagno rinfrescante non è una cosa semplice per la madre giordana, che entra in acqua coperta da capo a piedi, veste lunga e velo inclusi; di solito, quindi, le donne bagnano solo un po’ le gambe. I turisti occidentali tendenzialmente non vanno nelle spiagge libere e preferiscono gli stabilimenti a pagamento. La cosa mi crea qualche disagio, perché il mio bikini è l’unico in tutta la spiaggia, e quindi preferisco indossare una maglietta. Cerco di staccarmi di dosso la stoffa bagnata e intanto osservo il chiassoso, esuberante, eccessivo panorama umano intorno a me. I bambini continuano a sciamare ovunque, i padri ad arrostire sul fuoco, le madri a sistemare cuscini, sdraio, perfino mobiletti. E in questo enorme, divertente, colorato caos, oggi c’eravamo anche noi. 

venerdì 2 agosto 2019

notte sotto le stelle

Wadi Rum
Da quando era neonato, e teneva sveglio tutto il caseggiato con le sue urla notturne, il Piccolo ha un particolare gesto d’amore: gli piace accarezzare le ciglia. È un gesto riservato a pochi intimi: io, il Papà, la nonna. Il Piccolo mi accarezza le ciglia prima di andare a scuola materna, se anch’io sono a casa. Oppure prima di andare a dormire. O quando arriviamo in un posto nuovo, in cui ancora non si sente a suo agio. La notte scorsa è rimasto accoccolato sul mio fianco, con le mani sui miei occhi, a ripetermi paroline dolci come un fidanzato. Del resto la situazione era da film romantico: abbiamo dormito sotto le stelle, con un tappeto e qualche materasso per terra. 
Sopra di me il cielo stellato, diceva Kant. E fin qui ieri c’era anche la Famiglia in cammino; sorridente, eccitata e sporca di deserto. Ma poi Kant proseguiva: Dentro di me la legge morale. E su questo c’è da migliorare: vicino a me avevo tre bambini esagitati, che sgomitavano per un pezzo di coperta ed indicavano costellazioni a caso, ad alta voce, spaventando animali (pochi) e uomini (ancor meno) nel giro di qualche chilometro. I Sauditi, a pochi chilometri da noi, avranno di certo sospettato pericolosi disordini politici e saranno stati felici della loro frontiera chiusa.
In realtà dormire sotto le stelle coi bambini ha una serie di lati positivi, ma anche alcuni lati negativi. La Mamma in cammino è rimasta sveglia fino più o meno alle 3, e quindi è in grado di stilare un elenco, dividendo le voci:
Aspetto positivo: si vede il cielo come non lo si è visto mai. La Via Lattea appare in tutto il suo spettacolo, riconoscibile per chiunque, perfino per noi. Di stelle cadenti, in una notte sola, credo di averne visto una cinquantina, senza esagerazioni. Ad un certo punto ho pensato - le assurdità che uno pensa di notte - che fosse una buona idea esprimere sempre lo stesso desiderio. Se il diritto ad esaudirlo spetta a chi lo ha espresso più volte, sono candidata alla vittoria.
Aspetto negativo: i bambini non hanno chiarissimo il fatto che, se si mettono due materassi per terra, non si può avere lo stesso spazio che si ha nel proprio letto. Quindi si muovono, si girano, si appropriano di coperte e cuscini senza farsi domande. E in breve tempo, complice una lieve pendenza nel terreno, mi sono trovata a dormire proprio sulla nuda terra. La mia schiena ancora ringrazia.
Aspetto positivo: dormire vicini-vicini, stretti l’uno all’atro mentre fuori tutto è immenso, ha davvero qualcosa di poetico. Quand’erano piccole, la Grande e la Media venivano nel lettone la domenica mattina. Ora non lo fanno più da un po’, ma ogni tanto ci vorrebbe. Le coccole del Piccolo me le ricorderò per sempre. E anche la manina tesa della Media, a cercare la mia, quando si è svegliata durante la notte.
Aspetto negativo: la paura. I miei timori radicati di donna occidentale hanno assunto le sembianze di uno scorpione. Non mi ricordo dove ho letto che gli scorpioni amano il calore, e quindi durante la notte tendono ad infilarsi nelle scarpe o sotto i letti. Ho pensato che le nostre coperte potessero essere attraenti, e quindi ogni dieci minuti mi alzavo e le scuotevo per scacciare eventuali intrusi muniti di pungiglione. Ovviamente nemmeno l’ombra di uno scorpione. Nemmeno una formica. Niente.
Aspetto positivo: l’eccitazione dei bambini. Era commovente vedere il loro spirito d’avventura, la loro speranza che questa notte non finisse mai. È commovente vedere come il massimo del divertimento per loro coincida ancora con la trasgressione in compagnia di Mamma e Papà. Me lo devo ricordare, perché non durerà per sempre. Anzi, non durerà per molto. 
Aspetto negativo: l’eccitazione dei bambini. Ovviamente il tempo impiegato per addormentarsi è stato decisamente superiore al solito, con contorno di litigi, pianti e manate. Il che può togliere un po’ di poesia.
Aspetto positivo: l’alba. L’alba rosa, col sole che arriva piano pianissimo da dietro la montagna, come uno non lo vede mai perché sta sempre dormendo. E accorgersi che sì, stiamo ancora tutti bene, gli scorpioni erano solo nella mia testa, e i bambini sono riusciti a dormire perfino più di quello che pensavo io. E non c’è stato troppo freddo, non c’è stato troppo vento, soltanto c’era la sensazione della libertà.
Forse nella mente dei miei figli altri ricordi arriveranno a sbiadire questo. Arriveranno altre compagnie, altri amori, altri viaggi. Forse questa notte abbracciati a Mamma e Papà dovremo ricordargliela noi, perché sarà sepolta in un angolo polveroso della loro mente. Ma io questa paura degli scorpioni, queste stelle cadenti, e le carezze dei miei figli e ai miei figli, e quest’alba, tutto porterò sempre con me. 

autostrada nel deserto

31 luglio 2018
Wadi Rum

Il nome dice tutto: Desert Highway. Non assomiglia molto alla nostra idea di autostrada, ma nel deserto ci siamo di sicuro. Abbiamo visto scorrere, di fianco a noi, decine di accampamenti beduini con relative tende, pecore e capre. Abbiamo dovuto fermare l’auto perché un gruppo di dromedari era in mezzo alla strada, e poi abbiamo pazientato qualche minuto perché un cucciolo stava finendo la poppata, e quindi la madre si muoveva con lentezza. Siamo arrivati a Wadi Rum. Il paese è vicinissimo all’Arabia Saudita (ma qui la frontiera è chiusa) ed è praticamente sparpagliato: conta circa 1500 abitanti sparsi tutt’intorno (la maggior parte vive in tenda sostenendosi con l’allevamento), i quali gravitano su un minuscolo centro, con qualche negozio - frutta e verdura poche e carissime - un posto di polizia, la scuola pubblica, divisa in maschi e femmine. A scuola i bambini ricevono i tre pasti quotidiani, perché pensare di tornare al proprio accampamento è impossibile, ed assolvono l’obbligo fino ai 12 anni. Tutto intorno è deserto vero: sabbia, sabbia, sabbia e alcune grandi formazioni rocciose che si incendiamo di rosso al tramonto. Pare che Lawrence d’Arabia vivesse qui, o ci abbia vissuto per qualche tempo, in una casetta di mattoni sotto un’enorme roccia. Oggi dormiamo qui, in un accampamento con tende beduine, bagni in comune (con preghiera di non sprecare acqua, che qui è preziosa e costa anche parecchio), illuminazione a candele. I bambini sono rimasti un po’ intorno al fuoco ad aspettare, seduti sui tappeti, e poi abbiamo assistito alla magia della cena: la carne e la verdura erano state infilate in un grande contenitore metallico a due piani e poi messe a cuocere sotto la sabbia. Per dissotterrare il tutto ci è voluta la vanga, ma ne è valsa la pena: pasto squisito. Non c’è elettricità, nessun wifi, i cellulari non hanno nessun segnale. In compenso il cielo non ci è mai parso così stellato.