mercoledì 8 agosto 2018

l'ultima corsa

Quanti voli di ritorno abbiamo preso. Quante ultime corse in taxi. L'autista questa volta è gentilissimo, arriva a prenderci puntuale alle 7 e ha una carezza di saluto per i bambini. Sentendo che siamo italiani, ci fa i complimenti per l'arrivo di Cristiano Ronaldo alla Juventus (complimenti che ci hanno rivolto in tanti; ma a noi importa il giusto, visto che siamo appassionati di basket) e mette un cd a noi dedicato. Parte Toto Cutugno: Lasciatemi cantare, con la chitarra in mano... L'Italia è un bel posto dove tornare. Magari lo è un po' meno negli ultimi tempi; ma la nostra vita ci piace. Abbiamo casa-casa nostra, tanti amici, i nostri giocattoli, la pasta e la pizza. Certo abbiamo anche una routine che può essere rassicurante, ma è certamente faticosa. Abbiamo cassetti pieni di cose, giornate piene di appuntamenti; abbiamo lavori che ci appassionano, ma che ci portano lontano da noi. In viaggio, a volte, nelle minuscole stanze familiari in cui riusciamo a infilarci, mi piace guardarci tutti che dormiamo vicini vicini. E il resto è fuori.  
Prosegue Celentano: È inutile suonare, qui non vi aprirà nessuno... A casa ho la lavatrice a disposizione, ma questo significa anche che la devo avviare ogni giorno. I bambini hanno la loro musica e loro sport, ma devono apparecchiare e sparecchiare. Alzarsi presto al mattino, fare i compiti, rispettare una tabella di marcia. A casa non ci sono letti sfondati, ma sapere sempre dove si andrà a dormire a volte toglie l'ebbrezza. L'ebbrezza di immaginare un posto nuovo e arrivarci. Un sentiero mai visto da salire; o una città nella roccia dove perdersi, perché il bello è proprio quello: perdersi insieme, per mano. Ridere perché nessuno ci capisce, arrabbiarci perché come si fa a litigare per un legnetto. Mettersi in gioco ogni giorno, ogni momento su una scoperta nuova. Cercare di tenere i nervi saldi quando qualcuno si fa male, e non riuscirci per niente, perché qui nessuno parla inglese, come faccio a spiegare che il mio bimbo è caduto? 
L’ebbrezza di insegnare e imparare, o almeno provarci, che non conta sapere cosa si mangerà o dove si sarà. Che "casa" può anche essere una stanzetta semplice, dove però  riusciamo a cantare la ninnananna di tutte le sere. Dove salta fuori dalla valigia il peluche a forma di delfino che il nonno Giuseppe aveva regalato alla Media, e pazienza se i vestiti di ricambio sono ridotti a meno del minimo, e andiamo in giro sempre macchiati.
Arriviamo in aeroporto sui Matia Bazar: Ah, dolce vita che te ne vai... I bambini sono felici ed eccitati. Non vedono l'ora di essere di nuovo a casa-casa nostra. Li guardo rincorrersi facendo più rumore possibile. Per loro ogni capitolo finale è un nuovo inizio, ma io non sono, non sono più così. Mi carico sulle spalle uno zaino pesantissimo e penso, per consolarmi, che la parte migliore del viaggio sono stati loro tre. Loro tre che io mi porto sempre addosso.   

martedì 7 agosto 2018

battesimo del vino

Tbilisi
Alla vigilia della partenza, il Piccolo ha deciso tutt’a un tratto che la cucina georgiana è il suo futuro. Oggi, per la prima volta, chiedeva a gran voce khachapuri, e non pasta o pizza come ha fatto nelle ultime tre settimane. Peccato solo che siamo sulla via del ritorno a casa-casa nostra.
La Media sta bene, compatibilmente con il fatto che ieri non ha mangiato nulla e non riusciva a trattenere nemmeno un sorso d’acqua. I bambini però hanno capacità di ripresa sorprendenti, e quindi in compenso oggi ha avuto il battesimo del vino. A Sighnaghi siamo stati da Pheasant’s Tears, una piccola famosissima enoteca di proprietà di un americano sposato con una georgiana. Lui si chiama John Wurdeman, fa il pittore e si è innamorato della Georgia al punto da fondare un’azienda che produce vino biologico. Oggi esporta le sue bottiglie in tutto il mondo, compresi ristoranti stellati Michelin. Il vino georgiano, che ha una storia millenaria, non viene fermentato in botti, ma in grandi recipienti di terracotta, il che gli conferisce un gusto particolare. 
Noi non siamo certo intenditori, ma abbiamo colto l’occasione per una degustazione. A quel punto la Grande e la Media ci hanno chiesto rispettosamente di annusare (sanno bene che l'alcol è vietato), ma a noi è parso che un assaggio potesse essere una trasgressione divertente. Quindi hanno potuto esprimere una preferenza fra i bicchieri che avevamo sul tavolo: la Media ha scelto un bianco, la Grande un rosso. Solo un sorso a testa, ma è stato un piccolo evento, con tanto di brindisi celebrativo. Il sapore è stato molto gradito, anche se sospetto che si siano godute più che altro la piccola trasgressione. Il Piccolo ha strepitato per averne anche lui, ma si è dovuto accontentare degli stuzzichini arrivati sul tavolo insieme ai bicchieri, tra cui un formaggio veramente buono e veramente forte, che ha mostrato di apprezzare particolarmente. Rinuncio a capire i gusti dei bambini. 
Dell’azienda di John fanno parte anche due ristoranti a Tbilisi; in un primo momento avevamo pensato di sceglierli per la nostra ultima cena in Georgia, ma poi ci è parso che portare tre bambini stanchi in un locale raffinato non fosse il modo migliore per goderci la serata. Abbiamo quindi ripiegato su un posto in stile “vecchia unione sovietica”, con cucina georgiana a prezzi bassissimi e un arredo anni Settanta che sembrava uscito da un vecchio film. Ormai conosciamo bene i piatti che ci piacciono e quindi, dopo aver condiviso col Piccolo il nostro ultimo khachapuri per strada, siamo andati abbastanza sicuri sul menu: lobio (zuppa di fagioli speziata, servita in un vaso di coccio dalla bocca stretta), khinkhali (fagottini di pasta ripieni di carne), kharcho (zuppa tradizionale di riso, verdure, spezie e manzo). Solo non abbiamo capito perché il locale si chiami “Cafè Palermo” dato che di siciliano non c’era proprio nulla e i proprietari non parlavano una parola di italiano. Magari lo scopriremo al prossimo viaggio. Ciao ciao Georgia. 

lunedì 6 agosto 2018

i soldati del confine

Sighnaghi
Abbiamo il vago sospetto che il vomito a getto del Piccolo, iniziato appena arrivati in albergo a Tsalka e poi protrattosi per tutta la notte (notte terribile, come si può facilmente intuire), non fosse dovuto solo al viaggio in macchina a zig-zag: oggi anche la Media ha passato la giornata fra un conato e l’altro. Avrà vomitato 30 volte. Forse ha influito il fatto che, sottovalutando la situazione, siamo andati in macchina a vedere il monastero di Davit Gareja, distante un centinaio di chilometri, di cui gli ultimi 50 di strada dissestata. Non la peggiore delle strade georgiane, ma comunque una strada georgiana in cattive condizioni. 
Il monastero è stato edificato fra il sesto e il nono secolo, ed in parte scavato nella roccia. Collegate da sentieri a strapiombo (crinale montuoso estremamente panoramico) ci sono decine di celle, chiesette, locali di servizio. Il complesso si trova esattamente su confine con l’Azerbaijan, anzi in parte in territorio azero. La competenza dei due Stati è tuttora oggetto di disputa ed infatti tra le rovine (solo una parte del monastero è ancora in uso) ci sono soldati dell’una e dell’altra parte con tanto di fucili spianati. 
Arriviamo a destinazione dopo quasi due ore di tragitto, e numerose foto ai paesaggi intorno, che sono semidesertici. Negli ultimi 50 chilometri si incontra un solo villaggio, si passa fra due laghi salati e si osservano moltissimi rapaci, alcuni dei quali sembrano sfiorarci.  
Purtroppo, nel momento in cui scendiamo dalla macchina, ci rendiamo conto che la Media sta peggio che al risveglio. Visitiamo la parte bassa del monastero, ma le grotte affrescate si trovano in cima ad un serie di sentieri molto ripidi ed assolati. Decidiamo quindi di dividerci: il Papà rimane alla partenza col Piccolo e la Media (che non è in condizione di camminare e deve stendersi sul sedile dell’auto) mentre io salgo con la Grande. Al nostro ritorno, sarà il Papà a salire. Partiamo con passo baldanzoso ed iniziamo la salita. È straordinaria la vastità dell’area su cui sorge il monastero. Salendo si ha una vista aperta, con straordinari panorami aridi. La parte alta del complesso si chiama Udabno, che significa appunto “deserto”. Dato il problema dei turni sappiamo di non avere molto tempo, e quindi decidiamo di andare a vedere soltanto la grotta degli affreschi; sono del nono secolo e si trovano in un caverna scavata nella montagna, il che li rende unici. Ovviamente, però, come ovunque in Georgia, non esiste nessuna indicazione; io e la Grande vaghiamo su una vastissima rete di sentieri ripidi e scivolosi, senza trovare la grotta giusta. Arriviamo in cima alla montagna. Deserto da una parte, ed è Georgia. Lo stesso deserto dall’altra, ed è Azerbaijan. Ma degli affreschi che cercavamo nessuna traccia. Proseguiamo ancora, ci infiliamo in tutti i cunicoli, ma senza risultato. Io sono piuttosto nervosa perché il tempo passa, devo dare il cambio al Papà e voglio tornare a vedere come sta la Media. Tra l’altro, siccome siamo proprio sulla linea di confine, tutta la zona è sorvegliata da militari, e la vista dei fucili non mi piace. Meno ancora se ho una bambina per mano. Ad un certo punto un soldato azero ci intima l’alt con voce nient’affatto amichevole, e ci fa segno di tornare immediatamente indietro. Rinuncio a vedere gli affreschi, sperando che ci riesca il Papà. La Grande non sembra affranta: le è piaciuta la passeggiata e trova avventuroso l’incontro coi soldati. Purtroppo per scendere impieghiamo parecchio, anche perché il sentiero è scivoloso. La Media sta ancora male, quindi il Papà rinuncia al suo turno; ci infiliamo in macchina e ce ne torniamo a Sighnaghi. Gli affreschi non li abbiamo visti, ma speriamo che per domani mattina il virus abbia fatto il suo corso. 

domenica 5 agosto 2018

casa-casa mia

Sighnaghi
I bambini hanno un grande vantaggio: non vedono mai la fine, ma l’inizio. Sono per definizione proiettati nel futuro, e tutto ciò che è passato (o sta passando) non li riguarda più. Mentre il nostro viaggio in Georgia si avvia alla conclusione, e io e il Papà siamo sempre più nostalgici, loro pensano alle meraviglie che ritroveranno a casa, a quello che vorrebbero tanto fare, a cosa desiderano mangiare. In macchina, per strada, perfino al parco (oggi siamo tornati al parco, dopo molti giorni che non ne trovavamo uno) si sprecano discorsi su amici, spaghetti e giocattoli. 
Il Piccolo è un tantino confuso: poiché noi chiamiamo “casa” tutte le pensioni o gli appartamenti dove dormiamo in Georgia, la risposta “stiamo andando a casa” non lo soddisfa. Per evitare fraintendimenti, quando si riferisce a casa in Italia ha iniziato a dire “casa-casa mia”. A volte teme che qualcuno l’abbia occupata durante la nostra assenza e inizia a piangere. Noi, sperando di non mentire, lo rassicuriamo dicendo che casa-casa sua lo aspetta e citando tutti i giocattoli e il lettino di legno che ritroverà. E andiamo dalla nonna, vero? - aggiunge lui a quel punto, tutto speranzoso - la nonna mi sta aspettando? Mi prepara la pasta? 
La pasta in verità ricorre nei discorsi di tutti e tre. Alla Grande, inoltre, mancano i suoi libri: qualche giorno fa ha finito Oliver Twist e ora freme per leggere ancora, ma non si è portata altro. Voglio stendermi sul mio letto - dice pregustando il momento - chiudere la porta della camera e leggere tutto il giorno
La Media non ha finito il libro che si era portata, ma in compenso ha sviluppato un’atroce passione per il cubo di Rubik. Ne ha trovato uno a disposizione in un bar, ma dopo averlo provato è stata costretta a lasciarlo dov’era. Le abbiamo comprato il suo a Gori, su una bancarella, e da allora non se ne stacca più. Appena arrivo a casa - dice - mi chiudo in camera dei giochi. Io: E cosa farai? Lei: Voglio provare di nuovo tutti i miei giocattoli. Penso che ci vorrà un po’. Per favore, quando sarò chiusa dentro non chiamatemi. 

sabato 4 agosto 2018

salto in unione sovietica

Tsalka
Eravamo stati in quest’area l’anno scorso, durante il viaggio in Armenia, e già allora avevamo avuto l’impressione di rivedere l’Unione Sovietica. Ma la ciliegina sulla torta è il nostro albergo, talmente surreale da sembrare un set cinematografico: un casermone sulle rive del lago di Tsalka. Color verde menta, molto fatiscente, gigantesco e praticamente vuoto, se si esclude una coppia russa di mezza età e un gruppo di operai che lavorano al rifacimento della strada. In effetti un bel restauro non farebbe male: nonostante si tratti di una delle arterie principali del Paese (collega tutta la zona sud con Tbilisi), per chilometri e chilometri la strada è piena di buche modello voragine; oggi, sotto il diluvio universale, ci sono pozzanghere fangose lunghe decine di metri. Per cercare di evitare almeno i punti peggiori il Papà, come del resto fanno tutti gli altri automobilisti, procede con un continuo zig zag, corredato da qualche salto in alto quando il dosso non si può evitare. Il tutto ha effetti devastanti sul delicato stomaco del Piccolo, che prontamente vomita a getto appena arrivino in albergo. La fortuna sta nel fatto che in quel momento ce l’ho in braccio, quindi lui si piega su mio collo e vomita tutto dentro la mia maglietta. Sul pavimento non arriva nemmeno una goccia, cosa che mi consente di procedere con noncuranza verso la camera, dove la prima cosa che faccio è spogliarmi completamente e buttare tutto nel lavandino - mutande comprese. 
Ovviamente, trattandosi di un salto nell’Unione Sovietica, il personale dell’albergo è costituito da un’unica signora corpulenta che parla solo russo. I corridoi sono enormi e vuoti, la stanza è completamente spoglia, ma c’è una bella vista sul lago. Si tratta inoltre della sistemazione più economica da quando siamo in Georgia: l’equivalente di 17 euro per una camera familiare con bagno, più 10 euro di cena per tutti. Fantastico. Il ristorante è in un edificio staccato. Mentre ci andiamo, sempre sotto il diluvio universale, il Papà rischia di farsi staccare un polpaccio dal cane da guardia, ma alla fine ci salviamo. Il Piccolo nel frattempo si è completamente ripreso e ha fame. Riusciamo a fargli avere un patto di pasta in bianco e scotta, che lui accoglie con grandi applausi: È come quella che fa la nonna! urla in estasi. Poi si blocca un attimo e chiede: L’ha fatta la nonna?
Mentre ceniamo la luce manca una ventina di volte (non scherzo: si spegne e si accende con uno sfrigolio poco rassicurante), ma la cameriera (un’altra signora corpulenta che parla solo russo) continua a servire come se nulla fosse. Ordiniamo del vino per festeggiare, anche se non sappiamo bene cosa. E visto che il ristorante è completamente vuoto, la Grande e la Media cantano Rovazzi e ridono a gola spiegata. 

la grande paura

Vardzia - venerdì 3 agosto
La mamma piangeva e urlava. Il papà invece non urlava. Il ricordo del Piccolo fotografa perfettamente la situazione: ho gestito malissimo l’emergenza. Quattro giorni fa ad Ushguli, nel posto più remoto della Georgia più remota (ma coi bambini è sempre così: mai che si facciano male nelle vicinanze di un pronto soccorso), il Piccolo è caduto. È caduto nel modo più stupido, camminando in giro mentre eravamo seduti al bar, di ritorno dalla splendida ma faticosa passeggiata al ghiacciaio. Mi siedo un attimo a sorseggiare una birra e sento la Media chiamarmi: Mamma, vieni! È caduto! 
Mi giro pensando al solito scivolone, ma vedo il mio bimbo in una maschera di sangue. Urla disperato; ha sangue negli occhi, in bocca, su tutti i vestiti. Io non capisco cosa sia successo (ha battuto su un muretto con pietre a vista, ricostruiremo dopo qualche ora) ma mi trasformo letteralmente in un animale: lo prendo in braccio, me lo stringo contro, vorrei che nessuno lo toccasse ma nel frattempo anch’io sto urlando. Si raduna intorno a noi un gruppo di persone. Per la maggior parte sono ciclisti russi, è un gruppo in sosta che avevamo già notato. Una di loro, coi capelli rossi e la pelle scottata dal sole - non so perché registro questo assurdo particolare - si fa avanti: Sono un medico - mi dice - presto, lo stenda su questo materassino. Io sulle prime non ci riesco, vorrei solo stringerlo e portarmelo via, lontano dal muretto, lontano dal sangue. Ma intanto la dottoressa russa si impone: Lo stenda, subito! 
Il Papà riesce a mantenere il controllo: Stendilo - mi dice - e stai calma. Parlagli. 
Io penso che siamo in un posto dimenticato da Dio, nel paese del Medioevo, distanti ore e ore di terribile strada sterrata da un qualsiasi presidio medico. E intanto il mio bimbo perde sangue e urla, e urlo e piango anch’io. La dottoressa fa apparire magicamente una cassetta di pronto soccorso. Il cuoio capelluto sanguina tantissimo. La dottoressa lo disinfetta e lo fascia. La Grande e la Media piangono. La Media si sente in colpa, perché era lei a giocare col fratello quand’è caduto. Riesco a dirle che non è colpa sua, ma intanto continuo a piangere. 
Poi, all’improvviso, il sangue si ferma. La dottoressa consegna il Piccolo al Papà (deve aver pensato che le sue braccia fossero più sicure) e intanto mi abbraccia: Non è successo niente - dice - il taglio è già a posto. State attenti, invece, ad eventuali conseguenze della botta. Che sia vigile, che cammini bene, che non vomiti. 
Il Papà riesce a ringraziarla. Io penso solo a riprendermi il Piccolo, che ha una vistosa fasciatura intorno alla testa ma ha finalmente smesso di urlare. Dice di aver fame, chiede pane. Vorrebbe rincorrere alcune caprette poco distanti. 
Torniamo alla pensione frastornati. Io, la Grande e la Media siamo ancora in lacrime; ho i vestiti pieni di sangue, non ne sopporto l’odore ma non voglio lasciare il mio bimbo per cambiarmi. Il Papà ha mantenuto la calma e la dignità. Il Piccolo si sente al centro dell’attenzione e ci gode: Mi hanno messo un cerotto! La dottoressa mi ha curato! urla a destra e a sinistra, indicandosi la testa tutta fasciata. Poi mi abbraccia e dice: Mamma, non piangere. Tu sei la principessa di me…
Tutto a posto adesso. Non c’è nemmeno bisogno di un cerotto. Il taglio non si vede più. Ma la paura me la ricorderò per tutta la vita. 

giovedì 2 agosto 2018

arruolato nei cosacchi

Vardzia
Da quando ha avuto coscienza di essere al mondo, il Piccolo ha sempre dimostrato spiccate doti di giullare. Ama stare al centro dell’attenzione, non ha nessuna ansia da palcoscenico, anzi è convinto che il resto del mondo sia la sua platea. Ogni musichetta sentita per caso è un’occasione per cantare (magari cantare una canzone diversa, ma comunque cantare), ogni suonatore di strada una scusa per ballare. Ogni tanto capita perfino che il bambino che balla sia interpretato dai passanti come parte dello spettacolo, effetto scimmietta ammaestrata. Niente di meglio: per il Piccolo il vero godimento è quando si sente parte, se non al centro, della scena. La prima performance di oggi è stata a Borjomi, al parco delle terme. Borjomi è la prima cittadina davvero turistica che visitiamo in Georgia, e la mondanità ruota tutta intorno al grande parco verde, con punti di acqua surgiva. Luogo un tempo amato dai Romanov, oggi è una passeggiata piena di giostre, bancarelle e musicisti. Uno di questi, un suonatore di chitarra dallo stile piuttosto lacrimevole, si è guadagnato la simpatia del Piccolo, che ha ballato girando su se stesso per alcuni minuti, prima che me lo portassi via a forza perché temevo che vomitasse (non l’ha presa bene). 
Ma il vero spettacolo è stato in serata; alloggiamo in una grande azienda agricola biologica, che si trova sulle rive di un fiume e che affitta stanze. Mezza pensione obbligatoria, cena con verdure dei loro orti e pesce d’acqua dolce. Al tavolo accanto al nostro siede un gruppo di cosacchi dell’esercito, con tanto di divise nere, file di cartucce ben in vista sul petto e spade al fianco. Tra una portata e l’altra i cosacchi cantano a voce altissima brani tradizionali georgiani. Non sono esattamente motivi orecchiabili, ma il Piccolo salta in piedi e grida: Musica! Posso ballare? 
Senza sentire risposta comincia a girare vorticosamente, battere le mani, incitare i soldati, i quali ovviamente rispondono. Battono le mani e cercano di insegnargli a modulare la voce. È un invito a nozze: il Piccolo prova a imitarli, ma non è soddisfatto e si lancia su Fra Martino, uno dei suoi storici cavalli di battaglia, ovviamente con tutti i decibel di cui è capace. Uno dei cosacchi conosce la melodia e lo segue, gente che stava cenando si raduna tutta intorno e inizia a filmare. Un altro cosacco si cimenta in un ballo, e il Piccolo immediatamente lo imita. Lo chiamo e cerco di ricondurlo alla ragione, ma peggioro le cose, perché anche i cosacchi cominciano a chiamarlo per nome e a ridere forte. Lui è al culmine della gioia. Sfrutto un momento di pausa e decido che è ora di andare a letto. Ciao, buona notte! urla il Piccolo con ampi gesti all’indirizzo del gruppo in divisa nera. Ciao, Luciano Pavarotti! Rispondono loro a gran voce. Come tutte le star, questa sera il Piccolo esce di scena fra gli applausi. 

mercoledì 1 agosto 2018

l'appartamento conteso

Borjomi
Trovare spazi e letti per cinque persone non è sempre facile, quindi la Famiglia in cammino ricorre ogni tanto alle meraviglie della tecnologia e prenota una stanza. Prenotiamo, soprattutto, quando abbiamo qualche esigenza particolare, che di solito coincide con la lavatrice. Oggi lo avevamo fatto per rispettare una promessa: avevamo detto ai bambini che in serata avrebbero mangiato un piatto di pasta (sbalorditivo quando possa essere lacerante la nostalgia della pasta, soprattutto per i tre quinti della famiglia); non il pastone scotto che si trova in qualche ristorante occidentale, ma una pasta al dente cucinata dal Papà. Il kachapuri con l’uovo è buonissimo - continuano a dire i nostri figli - ma le penne al pomodoro sono un’altra cosa. Quindi ci siamo messi al lavoro per cercare un appartamento con cucina, ed in effetti l’abbiamo trovato. Una casa privata, in condominio, molto vicina al centro di questa piccola cittadina di acque surgive e tremali - Borjomi - dove la famiglia dello zar aveva una residenza estiva. Arriviamo quindi in auto all’orario stabilito e cerchiamo l’ingresso dell’appartamento. Il Piccolo è stanco e nervoso, chiede insistentemente di giocare, io cerco di calmarlo dicendogli che fra poco saremo a casa. La casa, però, non si trova. Non c’è numero civico (cosa in verità frequente nelle strade georgiane, dove spesso un numero contraddistingue non una singola entrata, ma un intero isolato), né il proprietario è venuto a riceverci. Telefoniamo, ma all’altro capo del filo parlano solo georgiano. Senza gesti è impossibile capirsi. Una vicina di casa ci sente: dice di sapere l’inglese e si offre di fare da interprete. Dopo molte chiamate a vuoto la padrona di casa risponde. Riusciamo con fatica a trovare la porta dell’appartamento (nel frattempo il Piccolo è sempre più nervoso, anche perché siamo per strada e fa molto caldo). Bussiamo, convinti che l’attesa sia finita. Ci apre una biondona in baby doll che sembra non capire nulla di quello che succede. Evidentemente non sa che per oggi erano attesi degli ospiti, mentre alle sue spalle due bambini guardano la televisione distesi sul divano. Pensiamo ad un errore. Nel frattempo la nostra interprete gestisce un altro giro di telefonate, a cui si unisce anche la biondona seminuda. Dopo molti sforzi capiamo che è la sorella della proprietaria, e che ha l’abitudine di usare l’appartamento quando è sfitto. A questo punto nessuno ha idea di cosa fare. Il Piccolo piange disperato, e piangono anche i bambini della bionda, che evidentemente si sentono cacciati da casa loro. Lei, esitante, spegne la sigaretta e ci fa dire dall’interprete: Prendo i bambini e me ne vado. Entrate pure al nostro posto. Non ci vedo più; afferro il telefono e urlo alla padrona di casa: lei non capisce una parola di inglese, ma le mie grida risuonano in tutto il palazzo. Non posso cacciare due bambini da casa loro. Non voglio che si sentano mandati via, e non voglio che ai miei figli passi il messaggio che… li stiamo mandando via. Quindi siamo noi ad andarcene, ma a questo punto è pomeriggio tardi e non abbiamo una sistemazione; la Grande e la Media sono deluse e stanche, il Piccolo urla senza più smettere; oltre al fatto che mi secca aver promesso la pasta e poi non metterla in tavola. Devo trovare una soluzione in fretta. Riprendo in mano il cellulare, trovo l’annuncio di un altro appartamento. Chiamo il proprietario, che per fortuna conosce qualche parola in inglese: affitto l’alloggio per stanotte - gli dico - ma solo se mi venite a prendere in macchina e mi ci portate. Adesso. 
In dieci minuti raggiungiamo un’altra casa, buttiamo i bagagli dentro e poi ce ne andiamo alle giostre, nel grande parco cittadino. Stasera, tutti a tavola con pasta al pomodoro. Una promessa è una promessa. 

martedì 31 luglio 2018

bagni di fango

Kutaisi
Di nuovo nella civiltà e di nuovo in una città caldissima. Per la verità avevamo pensato di arrivare molto più a sud; invece, stremati e paurosamente in ritardo sulla tabella di marcia, ci siamo fermati.  Questa mattina saluti commossi a Seraphim e lunghi discorsi con un autista georgiano conosciuto in pensione. Ci consigliava di non proseguire con la strada sterrata oltre Ushguli ma di tornare indietro da dove eravamo venuti. Fondo stradale pessimo - diceva - impiegherete cinque ore per meno di 40 chilometri: non vale la pena. Ma dopo il divertimento dell'altro ieri - e poiché rifare la stessa strada a ritroso non ci piace mai - decidiamo di affrontare il rischio. La salita verso il passo (circa 6 chilometri) è relativamente agevole, ma poi le cose si complicano. Giustamente questa strada è considerata la peggiore della Georgia. Ci sono enormi sassi, buche, fiumi di fango. Il vantaggio è che non è a strapiombo, e quindi non c'è la paura di finire nel burrone. Ci sono però molte altre paure: la maggiore è quella di danneggiare la macchina e di non poter proseguire. Si tratta di una zona isolata, dove i telefoni non hanno campo. Non c'è traffico, non ci sono paesi (dopo una quindicina di chilometri incontriamo un gruppo di case abbandonate, dopo altri cinque il primo vero villaggio) e quindi nessuno ci troverebbe. Ma tant'è, ormai siamo in ballo. I bambini premono per sperimentare questo nuovo percorso, che corre quasi tutto nel bosco, e noi adulti in fin dei conti non chiediamo di meglio. Alla fine impieghiamo poco più di quattro ore per 39 chilometri; all'ennesimo guado incontriamo un gruppo di mucche - il che ci fa capire che il paese abitato non può essere troppo lontano - e salutiamo l'asfalto come una meraviglia. Pranzo a bordo strada (dalla colazione in guesthouse rimangono sempre parecchi avanzi, e noi abbiamo preso l'abitudine di farceli impacchettare per risolvere il pranzo) e via verso sud. Il problema è che la strada corre per lunghi tratti vicino ad un fiume. All'ennesimo passaggio su anse tranquille, dove gruppi di ragazzi fanno il bagno, non resistiamo. Sappiamo bene che una sosta non prevista ci costringerà a rivedere i programmi, ma i bambini sono appiccicosi di caldo e il richiamo dell'acqua è troppo forte. In un attimo decidiamo che ci fermeremo più a nord del previsto. Nell'attimo successivo la scelta cade su Kutaisi, per mangiare di nuovo il miglior kachapuri del viaggio. Nel frattempo la Grande e la Media si tuffano dalle rocce e giocano a spalmarsi le gambe di fango. Il Piccolo decide di non limitarsi alle gambe e si spalma con gioia tutto il corpo, capelli compresi. Alla fine sembra una scultura di fango, se non fosse per il fatto che ride a gola spiegata. Guardando i suoi ricci impiastricciati mi domando se torneranno mai normali. Ma poi lui urla: È bellissimoooo! e a me non importa più. In fin dei conti lo shampoo l'hanno inventato apposta.

più su, fino al ghiaccio

Ushguli - lunedì 30 luglio
La Famiglia in cammino è autarchica: non rifuggiamo incontri con altri viaggiatori, ma ad essere sinceri non li cerchiamo. Bastiamo a noi stessi, siamo un gruppo numeroso e nessuno si aggiunge mai. Ieri sera, tuttavia, la Grande e la Media hanno giocato a calcio con alcuni altri ospiti della pensione. Questa mattina, al tavolo della colazione, uno di loro si è avvicinato e ci ha chiesto di  venire con noi nella camminata al ghiacciaio. Partendo a piedi da Ushguli, dopo circa quattro ore di buon passo si arriva fino alla lingua di ghiaccio perenne. La distanza c'è, ma il dislivello non è molto (circa 300 metri). Il percorso ci sembra fattibile ma i miei amici - dice il ragazzo - non se la sentono. Noi siamo colpiti dal suo coraggio (chi mai vorrebbe aggregarsi a una famiglia con tre bambini?) e ci facciamo volentieri accompagnare. La Grande e la Media lo hanno già preso in simpatia: la Media per il suo entusiasmo a pallone, la Grande perché può esercitare il suo inglese in vere conversazioni, visto che Seraphim viene dagli Stati Uniti. In viaggio fare amicizia è più facile, e quindi comincia subito lo scambio di sogni. All'inizio Seraphim e la Grande fantasticano su come sarebbe bello essere una mucca: qui in Georgia ne abbiamo viste a centinaia, e la nostra gita inizia in compagnia di una numerosa mandria. Mentre ci facciamo largo fra corna e campanacci il nostro amico, insieme alla Grande, scherza sulle meraviglie di una vita da mucca: vita all'aria aperta, nessun lavoro, nessuno stress. Il pericolo della trasformazione in hamburger non sembra turbarli, e nel frattempo continuiamo la marcia sul sentiero. La Grande chiacchiera sempre più spedita, la Media è meno fluente ma anche lei partecipe. Arriva il momento dei sogni veri: la Grande vorrebbe diventare magistrato; ha il mito di Giovanni Falcone e le sembra impossibile che un adulto qualsiasi non lo conosca. Coglie al volo l'occasione per raccontarlo, aggiungendo che fra qualche anno anche lei contribuirà alla lotta alla mafia.
Man mano che si sale, la vegetazione diventa meno rigogliosa. Il sentiero finisce ed iniziamo a camminare sui sassi. Siamo circondati da rivoli di acqua ghiacciata, risultato dello scioglimento. In lontananza vediamo la lingua di ghiaccio che sembra venire verso di noi, preceduta da una corrente di aria fredda. Il Piccolo, che porto sulle spalle, si rannicchia contro la mia schiena.
Seraphim dice che trovava noioso il proprio lavoro in un'azienda informatica. Ha mollato tutto, si è fatto dare la liquidazione ed è partito, al momento senza una data di rientro; ha studiato lingue e ama l'inglese: il suo sogno è insegnarlo ai nativi americani: Nelle riserve esistono scuole - dice - ma nessuno ci vuole andare. Troppo lontano, troppo scomodo.
Continuiamo a camminare sui sassi, ma ci rendiamo conto che il ghiaccio è sotto di noi. Tra le rocce spuntano chiazze bianche, scorrono torrentelli, si trovano ghiaccioli: Aaaahhhh! - urla il Piccolo leccandone uno - è troppo freddo!
La Media vuole diventare ingegnere. Il nostro amico americano obietta che il lavoro in cantiere può essere sporco. Lei ribatte che il problema non ci sarà, tanto si dedicherà alla costruzione di edifici: Un lavoro - precisa - molto più pulito.
Arriviamo ad una gigantesca lingua di ghiaccio. È un enorme blocco da cui rotolano massi e scendono piccoli ruscelli, molti dei quali confluiscono in un torrente. Ci fermiamo a mangiare un po' di pane e frutta. Lo spettacolo ci lascia ammutoliti. Sulla via del ritorno incontriamo l'ennesimo randagio amichevole. Chiede le nostre carezze, ci segue per un tratto e poi sparisce fra le rocce. Io penso che mi piacerebbe tornare qui fra qualche anno, se l'ingegnere e il magistrato riusciranno a far coincidere le ferie...

domenica 29 luglio 2018

strada per il medioevo

Ushguli
La Grande fotografa la situazione dopo circa trenta chilometri, percorsi in poco meno di due ore: È un posto dimenticato da Dio - dice semplicemente. Ha perfettamente ragione: ad Ushguli arriviamo dopo altri dieci sudati chilometri e un'altra ora di viaggio. Le condizioni della strada sono inconcepibili per un occidentale: quella che sulla carta appare come una strada bianca, ma carrozzabile, è molto peggio della peggiore fra le nostre forestali. Ci sono buche enormi, pezzi in cui la carreggiata è crollata, restringimenti, guadi, passaggi nel fango, strapiombi. A tratti ci sembra impossibile che una mulattiera così malridotta possa davvero portare da qualche parte. Il margine della strada è punteggiato di piccole edicole con croci, una per ogni defunto. Il paradosso è che la prima causa di morte sulla strada qui è l'alcol. Del resto, se non si hanno i riflessi pronti può essere molto facile incappare in un fatale errore. Eppure, per ricordare chi è caduto nel burrone, spesso vicino alle edicole si lasciano bottiglie vuote di birra.
La situazione è vagamente stressante, ma ha degli aspetti divertenti. Quindi mi metto al volante e guido per tutto il tempo. La macchina risponde benissimo, i bambini urlano di gioia ad ogni salto (e quindi, visto il numero delle buche, arriviamo a destinazione con le orecchie intronate) e io mi godo il brivido di una vera strada georgiana. La meta - il posto dimenticato da Dio - è il villaggio abitato più alto d'Europa: quota 2200 metri, al termine di una strada splendida e maledetta, isolato per sei mesi l'anno. Ci vivono una settantina di coraggiose famiglie, c'è un presidio medico, una piccola scuola e tanti hotel familiari che sembrano rifugi di montagna. Ushguli, patrimonio dell'umanità, ha l'aspetto di una fortezza: quasi ogni edificio, e sono tutti in pietra, ha una sua torre di avvistamento. In tutto sono circa duecento, la maggior parte di epoca medievale. Ci sistemiamo in una piccola guesthouse di legno e pietra. Gli ambienti sono tutti angusti e quindi prendiamo due minuscole doppie, con bagno ovviamente dall'altra parte dell'edificio. Rincorro il Piccolo perché non si tuffi nel fango intorno al pozzo (o direttamente nel pozzo), poi lo afferro un attimo prima che metta le mani in bocca ad un maiale di passaggio. La Grande e la Media nel frattempo hanno trovato una palla e giocano a calcio urlando: ci siamo già fatti riconoscere.

sabato 28 luglio 2018

il principe sul cavallo bianco

Becho
Mi sono sempre rivolta anche alla Grande e alla Media chiamando ognuna di loro "principessa". Il Piccolo, tuttavia, è stato il primo ad interiorizzare la condizione di "principe". Io sono una primogenita, e come tale mi sento responsabile di chiunque si trovi nel raggio di un chilometro, ho la mania del controllo e non mi aspetto niente da nessuno. Ma se rinasco vorrei rinascere terzogenita, per poter essere testarda, coccolata e sicura del mio sangue blu; a lui capita perfino di esternare la sua regale condizione quando qualcuno gli chiede come si chiama: La mamma - ha risposto più di una volta - mi chiama Principe...
Immagino sia questo il motivo per cui oggi ha riconosciuto come proprio il cavallo bianco, simile a quelli che si vedono nelle illustrazioni delle fiabe. Ed è voluto salire in groppa a quello per qualche tratto di passeggiata. Per inciso, so benissimo che un bambino di due anni non dovrebbe andare a cavallo. A mia discolpa, però, posso dire che il Papà gli è rimasto accanto tutto il tempo, che le foto sono venute benissimo e che... la gioia era troppa per dirgli di no.
Alloggiamo in una pensione in famiglia. Una grande casa che ospita un numero indefinibile di bambini (e di generazioni diverse, ma non abbiamo ben capito i rapporti reciproci) e poi gatti, cani, mucche e galline. Attraverso i proprietari abbiamo organizzato un'escursione a cavallo sui sentieri della zona. Siamo riusciti a capirci sul numero delle cavalcature: ne volevamo due. Un baio femmina che ha cavalcato la Grande e il maschio bianco che ha scelto la Media, cedendolo per qualche tratto al Piccolo. A questi si è aggiunto un puledro, figlio della giumenta, che è venuto con noi solo per sgambettare (e per ciucciare ogni tanto un po' di latte dalla madre). Purtroppo non ci siamo intesi sulla durata dell'escursione: mentre noi pensavamo ad un giretto di un'ora o poco più, i padroni di casa (e la guida, che è rimasta con noi tutto il tempo, ma parlava solo georgiano) hanno capito che saremmo voluti rimanere fuori tutto il giorno. Quindi ci siamo trovati ben distanti da casa, sotto il sole cocente, con pochissima acqua, niente cibo e il Piccolo nello zaino da troppo tempo, con conseguenti scatti nervosi: purtroppo il principe non ama essere trasportato a spalla. Alla mancanza d'acqua siamo fortunatamente riusciti a porre rimedio bevendo dal torrente (ho preferito non farmi domande), mentre la fame ce la siamo tenuta. In compenso abbiamo goduto di uno spettacolo grandioso. Circa sei ore a piedi coi cavalli in mezzo alle montagne del Caucaso. E io non so se sia una questione psicologica, ma il Caucaso ci appare veramente grandioso, veramente imponente, maestoso e pauroso. In questo scenario, oggi solo nostro (non abbiamo incontrato nessun altro escursionista) oggi c'erano due principesse amazzoni e un principe sul suo cavallo bianco. Abbiamo guadato torrenti, attraversato ponti, siamo passati su sentieri esposti e panoramici. La fame e la sete non le abbiamo (quasi) sentite.

venerdì 27 luglio 2018

randagi

Becho
Ai cani randagi mi sono dovuta rassegnare. Ce ne sono praticamente ovunque; molti sono amichevoli, il che ha sicuramente un lato positivo - fino ad oggi la mia prole non è stata divorata - ma ne ha anche uno negativo: divenuti un po' randagi anche loro, i miei figli hanno accarezzato in questi giorni più cani sconosciuti di quanto non avessero fatto nel resto della loro vita. Di solito vige il divieto assoluto di familiarizzare con qualsivoglia animale, ma in viaggio anche i freni materni diventano un po' più deboli. Speriamo che il frutto di tutto questo siano solo un po' di anticorpi.
Oggi lunga giornata di trasferimento in auto, dalla caldissima Kutaisi (dove abbiamo visitato il monastero di Gelati - e mi sono guadagnata un'occhiata di fuoco dal monaco di passaggio, visto che il Piccolo correva a rotta di collo nella chiesa della Natività) alle montagne dello Svaneti. Pare che si tratti della più georgiana fra le regioni della Georgia: Caucaso profondo e rurale. In tutto circa 250 chilometri di viaggio; non sembra molto, ma non bisogna farsi ingannare. Non di autostrada a tre corsie si tratta, ma di un percorso in sali e scendi, tutto curve e con lunghi tratti sterrati. Il nostro fuoristrada ha affrontato benissimo la situazione, ma poiché la strada è classificata come una delle più pericolose del Paese, il Papà ha guidato con particolare prudenza. Il fatto divertente è che alcuni punti della carreggiata sono crollati per decine di metri nei burroni sottostanti, e non sempre il fatto che manchino pezzi di strada è ben segnalato. Divertente a pensarci adesso che siamo arrivati, ma durante la giornata un po' meno.
Molte merende da mangiare in macchina - non sappiamo mai se e quando troveremo un punto di ristoro - e pranzo alle 16, in un bar con tavolini colorati a bordo strada. Qui siamo stati avvicinati dal primo cucciolo della giornata: un cagnolino nero per cui i bambini sono impazziti (il Piccolo e la Media si rotolavano letteralmente a terra); il randagio è invece impazzito quando sul tavolo sono arrivati i nostri kachapuri al formaggio. Incredibile l'abilità di salto che può avere un cagnolino minuscolo. Dopo averlo lasciato a malincuore per tornare in macchina, siamo saliti tornante dopo tornante a Becho. Siamo di nuovo tra le montagne, ma per fortuna non fa così freddo come qualche giorno fa a Gergeti. Alloggiamo nella guesthouse di una famiglia con bambini. Qui troviamo il secondo cagnolino della giornata, che gironzola intorno al tavolo per tutto il tempo della cena, leccando i piedi di noi tutti e mandando in visibilio i bambini. Ci sono poi cani, maiali, gatti e non so che altri animali da cortile. Tutti amichevoli, tutti accarezzabili, tutti luridi. Ma ormai mi sono (quasi) abituata al fatto che siano un po' randagi anche la Grande, la Media e il Piccolo...

giovedì 26 luglio 2018

le grotte di prometeo

Kutaisi
Il Piccolo ha notoriamente una sensibilità tutta sua: per lui il momento migliore è stato il ritorno al parcheggio, quando l'autista del bus-navetta gli ha permesso di sedersi vicino al posto di guida. L'esperienza è durata in totale due minuti, ma ha scatenato pericolose conseguenze a lungo termine. Per evidente associazione di idee, nel corso delle successive due ore il Piccolo non ha fatto altro che parlare del suo sogno: guidare il camion della nettezza urbana. Mamma - diceva estatico - quando divento grande mi compri un camion tutto per me? Un camion delle immondizie? Così raccolgo le immondizie col camion e le porto via? Mamma? Mamma? Quando divento grande mi compri un camion?
Ha smesso solo di fronte al piatto di pasta al pomodoro preparato dal Papà in omaggio ai suoi desideri (l'ostello dove dormiamo ha la cucina in comune e quindi abbiamo potuto preparare la cena). Per la cronaca, la Grande, la Media e il Piccolo hanno mangiato più di cento grammi a testa di penne. Un vero omaggio alla cucina italica.
A differenza dell'aspirante autista di camion, i quattro quinti della famiglia erano incantati per ciò che avevano visto prima del bus-navetta: oggi siamo scesi nelle cosiddette Grotte di Prometeo, una meraviglia naturale. Sono state scoperte negli anni Ottanta, poiché le autorità sovietiche cercavano rifugi antiaerei sotterranei. Sono poi rimaste chiuse per mancanza di fondi, quindi riaperte da una decina d'anni, con un percorso curatissimo che si snoda per un chilometro e mezzo sottoterra. Le grotte sono un tripudio di stalattiti, stalagmiti, formazioni rocciose di tutte le forme, laghi sotterranei. Per completare il percorso occorre più di un'ora, e alcuni passaggi sono letteralmente mozzafiato, con sedici diverse camere, alcune delle quali di dimensioni spaventose. La stanza più grande è quella che dà il nome alle grotte ed è dedicata alla figura di Prometeo, che secondo le leggende locali fu incatenato qui. È già la seconda volta in pochi giorni che passiamo da un luogo in cui si dice che fu punito Prometeo, figura che personalmente amo molto. Approfitto per raccontare di nuovo la leggenda del fuoco rubato per gli uomini e della sfida agli dei. Ormai le ragazze conoscono il mito meglio di me, ma raccontarcelo in questo scenario surreale ha qualcosa di magico. Altre grandi camere sono legate a Medea e al mito degli Argonauti in cerca del vello d'oro. Questa zona, anticamente nota come Colchide e considerata terra favolosamente ricca, era la patria di Eete, il re che possedeva il mitico vello d'oro, di cui la spedizione di Giasone voleva impossessarsi. Gli Argonauti furono aiutati da Medea, figlia di Eeta e dunque principessa della Colchide. Faccio cenno anche al mito di Medea, ma oggi è la roccia a dare spettacolo, con la Media che allunga le mani per toccare le formazioni calcaree e la Grande che continua a chiedermi di fotografare: vorrebbe stampare delle immagini per i suoi compagni di classe, visto che quest'anno l'insegnante di scienze ha trattato l'argomento delle stalattiti e delle stalagmiti. Usciamo dalle grotte pieni di stupore. Parliamo dei laghi e dei fiumi sotterranei, ricordiamo le forme incredibili assunte da alcune rocce.
Poi il Papà scola la pasta e cala il silenzio.

mercoledì 25 luglio 2018

cosa significa casa

Kutaisi
Cambiare giaciglio non lo spaventa: oggi, per la prima volta, il Piccolo dorme in un letto vero, e non nel lettino a forma di tenda che portiamo con noi durante i viaggi. Non trovando altro e avendo numerosi minori da sistemare, a Kutaisi affittiamo la camerata di un ostello. Ci sono otto letti uno in fila all’altro, ci è sembrato stupido montare il nono. Temevamo che l’interessato presentasse chissà quali rimostranze, ma invece si è limitato a chiedere: Mi canti la ninna nanna, vero? come peraltro fa sempre, ogni volta che ci spostiamo. Per lui, la ninna nanna che gli canto la sera (stonando sempre sugli stessi passaggi, immagino) è sinonimo di casa, e non importa quale sia il supporto del materasso. Speriamo, tra l’altro, che dormire senza sponde gli dia una maggior sensazione di fresco, almeno facendogli sentire meglio gli effetti del ventilatore. La camerata non ha aria condizionata e oggi a Kutaisi si sono superati i 40 gradi. Ora, passate le 23, ce ne sono comunque più di trenta. Si prospetta una notte di affanni (e di sudore). 
Ma non è solo la ninna nana a fare “casa”. Data la sua passione per piatti e pentole, ogni volta che arriviamo in un nuovo alloggio il Piccolo chiede immediatamente - e con una certa agitazione - dove sia la cucina. La prima cosa che deve fare è localizzare il mobile con le pentole. Le dispone in ordine e con soddisfazione, fingendo di preparare chissà quali manicaretti. Oggi, a bordo strada, da una vecchia vestita di nero e con baffi evidenti, gli abbiamo comprato un cucchiaio di legno. Finalmente si sente libero di esprimersi. In ogni nuova sistemazione, inoltre, il Piccolo riesce ad armarsi di panno (che nella sua lingua si chiama “pezzetta”) e a strofinare energicamente qualsiasi superficie: pulire è un’attività a cui si dedica con impegno paragonabile solo a quello delle pentole. Un maschio da sposare, si direbbe, se io non fossi assolutamente impreparata a questo pensiero.
Per la Media, il concetto di casa corrisponde più che altro al cibo: è lei la prima a sentire la mancanza di pasta e pizza. Questa sera, in un ristorante molto affollato e con un sevizio per lo meno fantasioso (in Georgia non bisogna avere certezze né di cosa arriverà sul tavolo né del tempo che impiegherà), la Media ha disdegnato il kachapuri in favore di un triste riso in bianco, senza nemmeno un po’ d’olio. In assenza di pasta, questo era quanto di più simile al sapore di casa. Vederla trangugiare un riso scotto come fosse una prelibatezza era quasi commovente; a questa scelta, e con la stessa soddisfazione, si sono peraltro uniti i fratelli. La cosa ha dei risvolti positivi, se si considera che riso in bianco e pane semplice non costano letteralmente nulla. Al panificio, per esempio, il prezzo è più o meno l’equivalente di 50 centesimi di euro al chilo. E di pane la famiglia ne sgranocchia abbastanza. 
Da quando ha scoperto la lettura, per la Grande “casa” è un libro da leggere. Arrivando in alloggio, la prima mossa che fa è tirar fuori dal bagaglio il suo libro, anche quando non potrà immediatamente leggerlo, perché magari stiamo uscendo. Essendo il kindle (come qualsiasi aggeggio elettronico) ancora appannaggio dei maggiorenni della famiglia, si tratta di un libro cartaceo. Peccato solo che questa volta la scelta sia caduta su Oliver Twist di Dickens, in edizione integrale. Non si tratta esattamente di un librettino tascabile e leggero…
Ninna nanna mamma insalata non ce n’è
Sette le scodelle sulla tavola del re…

martedì 24 luglio 2018

è un tiranno

Gori
Il figlio celebre di Gori era Stalin; la città ha con la sua memoria un rapporto ambivalente. La statua che troneggiava in centro è stata abbattuta (di notte, pare) ma qui tutto porta ancora il nome dell’Uomo d’Acciaio: la strada principale, il parco più grande, l’edificio più sontuoso. Quest’ultimo, peraltro, ospita il museo dedicato proprio a Stalin. La storia del ragazzino poverissimo partito alla conquista dell’Unione Sovietica ha degli elementi di fascino: il padre alcolizzato che lo picchiava, la madre ortodossa fervente. Tuttavia Stalin è stato e rimane un tiranno: uno che mandava a morire nei gulag gli oppositori veri o presunti, uno squilibrato colpevole di crimini contro l'umanità, e questo non bisogna dimenticarlo, nemmeno per un attimo. Siamo un po’ combattuti sull’opportunità di visitare il museo, ma alla fine decidiamo di cogliere l’occasione per spiegare qualcosa alla Media e alla Grande. 
Dentro ci sono foto di Stalin in mille contesti diversi (nemmeno un cenno ai gulag o al genocidio per fame in Ucraina). La sua valigia personale, i cappotti, la scrivania che usava al Cremlino. C’è perfino, portato qui chissà in che modo, il vagone ferroviario personale, con bagno e sala riunioni. L’ingresso sul treno è il momento preferito del Piccolo, che guarda in tutte le cuccette prorompendo ogni volta in urla di entusiasmo. 
Mamma - mi chiede la Media guardando un quadro - perché dici che era cattivo? A me sembra buono… Guarda come tiene in braccio questa bambina…
Amore - rispondo io - si chiama propaganda. Tutti i tiranni, soprattutto i più cattivi, vogliono far credere di essere buoni. Quindi diffondono immagini in cui appaiono sorridenti e nel frattempo ammazzano le persone.
Ah - risponde lei - e mentre ammazzava le persone quindi si nascondeva…
La Grande ha un lampo di memoria: Ma non è lui - dice ad un certo punto - che aveva fatto rapire lo scrittore armeno?
Effettivamente l’anno scorso, in Armenia, abbiamo visitato la casa di Aksel Bakunts, un intellettuale vittima delle purghe di Stalin. Sono contenta che se ne ricordino.  
Esatto - rispondo - tutti i regimi totalitari diffidano degli intellettuali. Vogliono pubblicare solo i libri e i film che a loro piacciono, e non quelli che li criticano, o che mostrano semplicemente la realtà.
La Grande: Anche Mussolini faceva così, vero? 
Io: Certo. Si chiama censura. Tutti i regimi totalitari la applicano.
Quando ragiona su qualcosa che le dico, la Grande gira lo sguardo di lato. Sembra quasi che non stia ascoltando, ma invece è il momento in cui è più attenta. Rimane zitta e riprende a camminare. Uscendo dal museo, in fila per il pane appena sfornato, mi guarda e dice: I tiranni bruciano i libri. Chi brucia i libri è un tiranno

lunedì 23 luglio 2018

lezioni di lingua

Gori
Torturato da un incessante bisogno di relazioni, il Piccolo continua a rivolgere la parola a chicchessia. Ha tuttavia cambiato tattica. Stanco dell’infruttuoso Come ti chiami? ha iniziato ad approcciare gli sconosciuti con: Ho fatto una puzzetta! Oppure: C’è puzza di cacca! Battute che trova sommamente divertenti.  Dimostra peraltro il giusto timore per le persone anziane, perché solo ai bambini si rivolge con Sei una caccola! per tornare indietro tutto sorridente e dire: Non capisce. Non è italiano
Credo abbia colto il fatto che nel mondo esistono lingue differenti, e a modo suo ne trae vantaggio. La Media, peraltro, si applica nell’insegnargli l’inglese, quindi i nostri viaggi in macchina sono scanditi da conversazioni che sembrano ispirate ai corsi di lingua DeAgostini: Chiesa? Church! Gatto? Cat! E così avanti all’infinito. I risultati delle lezioni della Media si vedono già, perché quando vuole farsi davvero capire il Piccolo dice Thank you! suscitando di solito l’ilarità degli astanti. 
Oggi, tra saluti e abbracci alla padrona di casa, abbiamo lasciato il villaggio ai piedi del Cinquemila per dirigerci a Gori, città natale di Stalin. Siamo di nuovo in bassa quota e abbiamo riguadagnato parecchio in temperatura, cosa che per la verità non mi dispiace. Lungo il tragitto ci siamo fermati a Mtskheta, che si trova alla confluenza tra i fiumi Aragvi e Kura. Qui, secondo la tradizione, i georgiani si convertirono al cristianesimo, e tuttora qui si trova la sede della Chiesa georgiana. Presi dalla smania di accendere ceri (che il Piccolo cerca regolarmente di spegnere soffiando, con alte grida di Buon compleanno!) abbiamo visitato la Cattedrale di Svetitskhoveli (XI secolo) e il Monastero di Jvari (VI secolo), che si trova su una collina da cui si domina tutta la città. 
In Georgia i cani randagi sono molto numerosi, anche se a dir la verità ci sembrano in qualche modo monitorati, dato che la maggior parte di loro ha una targhetta all’orecchio, simile a quelle che da noi si usano per le mucche. Fuori dalla cattedrale, una di questi randagi inizia a seguire la Grande. La guarda, chiede coccole, la sollecita toccandole le gambe con una zampa. I tre quinti della famiglia sono letteralmente incantati. In un attimo progettano di infilare il cane in macchina, e poi in aereo, e infine di sbarcare a casa con un souvenir peloso. Io e il Papà abbiamo il nostro da fare a bloccare le rivendicazioni: un cane piacerebbe anche a noi, ma questo no, proprio non possiamo portarlo a casa. 

domenica 22 luglio 2018

pezzettino di caucaso

Gergeti-Kazbegi
Il villaggio di Stepantsminda ha due nomi: Stepantsminda, che significa Santo Stefano, è quello che si trova sulle carte geografiche e le indicazioni stradali. Il nome, dato il divieto di culto dell’epoca sovietica, era stato cambiato in Kazbegi,  ricordo di un nobile locale che aveva favorito la conquista russa. Dopo il 1991, raggiunta l’indipendenza, le autorità georgiane hanno deciso di ripristinare il vecchio nome, anche in onore del fatto che qui si troverebbe l’eremo del monaco ortodosso poi divenuto Santo Stefano. Ma il tentativo non ha avuto molto successo, dato che tutti continuano a riferirsi al paese con il nome di Kazbegi. Lo stesso nome ha la vetta che si trova sopra le nostre teste (Gergeti, dove dormiamo, è una frazione di Kazbegi); un maestoso Cinquemila che si conquista partendo proprio da qui. 
Di tutto questo alla Grande, alla Media e al Piccolo probabilmente non importa nulla, ma è la storia che racconto la sera, mentre aspettiamo le nostre zuppe di fagioli e un buonissimo piatto di khinkali, specie di involtini di pasta fatta in casa e carne speziata, specialità georgiana. Per la seconda sera consecutiva ceniamo in un ristorante a conduzione familiare, anzi a conduzione unica: l’insegna luminosa dice “Beba”, che in georgiano significa “nonnina” ed in effetti qui fa tutto la nonnina. La signora avrà ottant’anni, porta una lunga gonna nera e i capelli raccolti in una coda; sorride agli ospiti, riesce a spiegare in qualche modo la proposta del giorno, prende le ordinazioni  su un foglio a quadretti e si infila in cucina. I pasti sono ottimi e costano niente (l’equivalente di quindici euro per una cena abbondante per cinque), ma il rovescio della medaglia è la lunghezza dell’attesa, che supera abbondantemente perfino gli standard locali. Aspettando, allora, ho tutto il tempo di raccontare del principe che ha aiutato i russi; poi parlo di Prometeo, che secondo le leggende locali sarebbe stato incatenato proprio su questi monti, e racconto di Puškin, che è passato da qui nel 1829 attraversando il Caucaso. Sto giusto per iniziare la lettura della “Cavallina storna” (ho sempre con me, tra le altre, l’opera completa di Pascoli. Poveri i miei figli) quando la nonnina appare finalmente coi piatti. La famiglia è particolarmente vorace, perché oggi ha avuto il suo pezzettino di salita caucasica. Partendo dal nostro villaggio, ben prima della vetta a quota cinquemila, c’è una delle chiese più famose della Georgia: la Santa Trinità di Gergeti. Ci si arriva percorrendo due ore di sentiero piuttosto ripido, fino a 2.200 metri. La difficoltà maggiore sta nel fatto che, mentre la Grande e la Media sono più veloci di noi, il Piccolo non è ancora in condizione di scalare montagne, ma non ama stare nello zaino. Noi però lo infiliamo comunque, sperando ogni volta che cambi idea (cosa che puntualmente non avviene). Quindi trascorre il tempo a dimenarsi e scalciare, rischiando ogni momento di far perdere l’equilibrio alla povera madre, con conseguente potenziale caduta nel burrone sottostante. A pochi metri dalla chiesa lo faccio finalmente scendere, ma così è peggio ancora: il Piccolo si imbatte in un folto gruppo di mucche e vitelli, che accarezza a ripetizione con il sostegno della Grande e la Media. Impieghiamo quasi mezz’ora a staccarci e conquistare l’entrata del santuario; i bambini nel frattempo ci guardano storto, con l’aria di chi vorrebbe proprio sapere cosa ci sarà mai di così interessante in una chiesa medievale quando si potrebbe star fuori a ficcare le dita nelle luride narici di un vitello…

sabato 21 luglio 2018

il bucato in macchina

Gergeti-Kazbegi
Ora io non capisco perché, ma le mutande da far asciugare sono il nostro marchio: abbiamo cominciato anni fa, sul Cammino di Santiago, appendendo ai passeggini quello che rimaneva umido dopo il lavaggio della sera prima. Da allora non siamo mai riusciti a liberarci del problema. E anche se al mattino riesco ad ottenere una buona approssimazione della valigia perfetta, in giornata succede sempre qualcosa di umido a scombinare i miei piani. Anche oggi siamo faticosamente arrivati al nuovo alloggio (l’appartamento di una famiglia di cui abbiamo affittato una stanza) con le mutande ad asciugare sui poggiatesta dell’auto. 
Questa mattina presto abbiamo ritirato la macchina a noleggio: una Mitsubisci piuttosto spartana ma con quattro ruote motrici, marce ridotte e blocco dei differenziali. Qualsiasi cosa voglia dire tutto questo, speriamo di essere in condizione di affrontare le strade della Georgia. Siamo partiti subito verso nord, diretti alle montagne. Ci siamo fermati ad Ananuri, un complesso architettonico-fortezza del XIII secolo che sorge sul fiume Aragvi. Più avanti, poco prima di Pasanauri, dove la strada costeggia per lunghi tratti il corso d’acqua, abbiamo incrociato vistosi cartelli con foto di canotti. Ovviamente fermarci a fare rafting tra le rapide non era nei programmi (e a dirla tutta non ero affatto entusiasta di lanciare le mie ragazze tra le onde); ho aperto la bocca con l’intenzione di sedare proteste e richieste; invece, senza nemmeno sapere come, ho accordato alla Grande e alla Media il permesso per un percorso di rafting insieme al Papà. Io sono rimasta a riva col Piccolo, a sgranocchiare noccioline e a fare amicizia con un cavallo che pascolava in solitudine (e che probabilmente sarebbe stato contento di rimanere solo…). La Grande e la Media sono tornate entusiaste, e ovviamente - letteralmente bagnate fino alle mutande. Da cui la necessità di stendere il bucato in macchina. 
Nel tardo pomeriggio arriviamo finalmente al villaggio di Gergeti, a 1800 metri di altezza. La temperatura è ben diversa rispetto a Tbilisi, l’asfalto non esiste e mucche e maiali camminano liberi tra le case. Il Papà mi appoggia la sua giacca sulle spalle, come la primissima sera che siamo usciti insieme. 

venerdì 20 luglio 2018

i progetti di tbilisi

Tbilisi
La compagnia di clown che abbiamo conosciuto ieri raccoglie fondi per ristrutturare il proprio teatro. A questo punto ci aspettiamo che venga intitolato alla Famiglia in Cammino, visto che da due giorni continuiamo a passare per la strada dove loro tengono gli spettacoli danzanti, continuiamo ad unirci al ballo (la Media si considera ormai parte della banda, e piroetta sul marciapiede come se l’avesse sempre fatto) e continuiamo a vuotare le tasche. Ma è che i progetti ci piacciono, e quindi li finanziamo. La città ci appare piena di suonatori ambulanti e di piccole orchestre. Raramente, purtroppo, si tratta di musica caucasica. Più spesso sono cover, qualcuna anche ben interpretata. Soprattutto, però, ci incuriosiscono gli artisti, che spesso espongono fantasiosi cartelli con la motivazione per cui chiedono spiccioli. 
Il Piccolo continua nel suo affannoso tentativo di capire come mai qui nessuno gli risponde. Ha imparato a dire kachapuri (il piatto nazionale georgiano; una base di pasta simile a quella della pizza, ma molto spessa e con sopra le uova), termine che ovviamente non aveva mai pronunciato; questo dovrebbe fargli venire dei sospetti, ma lui ancora cerca di attaccare discorso in italiano. Al momento non si è perso d’animo. Ieri, per attirare l’attenzione del tassista, ha esibito i suoi sandali (invero piuttosto brutti), con un trionfante: Hai visto le mie scarpe? Me le ha regalate la nonna! Di fronte al vago sorriso dell’interpellato, il Piccolo ha insistito: Me le ha messe proprio la nonna! Ma poi, non ottenendo risultati, ha dovuto gettare la spugna, preferendo balzare sulla pancia della sorella con un pauroso grido di battaglia. Non credo abbia capito che non tutti, nel mondo, parliamo la stessa lingua, giacché non si arrende e continua ad importunare i passanti nella propria. 
Oggi abbiamo visitato il parco Dedaena, che ospita tutti i giorni un mercato delle pulci con numerosi cimeli sovietici. Per la gioia del Piccolo, che è da sempre un cuoco appassionato, e per poter cucinare ogni tanto un piatto di pasta (la Barilla si trova) abbiamo acquistato una pentola di adeguata capacità. Ovviamente dovremo scarrozzarcela per il resto del viaggio, ma è noto che la comodità non ci appartiene. 
Siamo stati al parco Rike, per vedere le sculture folli che ospita (in più punti Tbilisi ricorda il Parc Guell di Barcellona) e per una sosta-kachapuri a pranzo. Siamo saliti in funivia al gigantesco monumento della Madre Georgia, un’enorme statua bianca che regge una spada e un bicchiere di vino. Da lì si gode di una vista pazzesca su tutta la città, oltre al fatto che ci siamo divertiti moltissimo nel volo in funivia. Ma soprattutto, proprio sotto la Madre Georgia, abbiamo finanziato il migliore dei progetti. C’era un ragazzo giovane, magrissimo, solo con la sua chitarra elettrica e le braccia vistosamente tatuate. Vicino ai suoi piedi, un cartello in georgiano e in inglese: Mia sorella minore vorrebbe diventare una fotografa. Io vorrei regalarle una buona macchina fotografica per il suo compleanno. Questa musica è per voi.
Trattengo non tanto bene le lacrime, elargisco con generosità e mi giro verso la Grande: Hai visto, tesoro, che bravo fratello? Suona qui perché vuole fare un regalo alla sorella…
La Grande: Mamma, ma se l’ha scritto e poi non è vero?
Può darsi che non sia vero. Ma è stato bello leggerlo, e anche crederci. 

giovedì 19 luglio 2018

al timone

Tbilisi
Abbiamo disseminato la città di palloncini. Il migliore era quello della Media: una specie di inno al kitsch gonfiabile, con lungo stelo e luci a led. Lo avevamo visto in mano ad una venditrice ambulante sulla sponda del fiume Kura, salendo verso il Ponte della Pace, una gigantesca struttura moderna, tutta in ferro, a forma di onda e illuminata la sera. Le luci del pallone sembravano proprio quelle del ponte: non abbiamo saputo resistere all’acquisto, nonostante la follia del prezzo. Purtroppo questa meraviglia ad aria è ignominiosamente scoppiata nel contatto con un filo di ferro sporgente, provocando pianti disperati. 
Gli altri palloncini, più convenzionali, erano invece il frutto del breve incontro con una compagnia di clown di strada: quello sui trampoli occupa ancora i discorsi di tutta la famiglia, ma intanto i palloncini non ci sono più; scoppiati o dispersi (giuro però che ho recuperato i pezzi per strada, quando ho potuto), non sono nemmeno arrivati fino all’appartamento che abbiamo affittato, ed ora vagano decorando chissà quali angoli di Georgia. Non che si tratti necessariamente di un male, visto il disordine in cui già versa l’alloggio. 
Della città non abbiamo ancora un’idea chiara, se non un’evidente sensazione di fatica: Tbilisi è tutta un sali e scendi, e per di più oggi faceva molto caldo. Ancora sconcertata dal viaggio, messa alla prova dal caldo (oggi massima 39 gradi), la Famiglia in Cammino ha boccheggiato quasi tutto il giorno, con la sola eccezione della Mamma, che resiste bene alle alte temperature e si è quindi dedicata, con insana gioia, alla caccia fotografica, iniziando a sfogare più o meno un anno di creatività repressa. Mi è ripresa, tra l’altro, la mania di immortalare i turisti che scattano selfie. Temo che un giorno questo mi costerà un ceffone (ci sarà pure qualcuno che non gradisce) ma per ora giro indisturbata in cerca di sorrisoni dei giapponesi, che a quanto pare hanno eletto pure la Georgia a loro meta (ci sono però anche tantissimi russi). Unico momento di refrigerio è stato il giro in barca sul Kura al tramonto: niente di epico, una minuscola chiatta senza pretese, ma il Piccolo ha vissuto momenti di vera felicità quando ha potuto mettersi al timone, per di più indossando il berretto del barcaiolo; un onore, quest’ultimo, che gli avrei volentieri risparmiato, ma credo di aver capito che si trattasse di un pacchetto completo…

mercoledì 18 luglio 2018

il volo peggiore

Tbilisi
Ho sempre pensato che per i bambini sia solo una questione di centimetri; non importa la lingua, meno ancora il luogo o la situazione: quel che basta è trovarsi più o meno alla stessa altezza. Nella zona internazionale dell’aeroporto di Tbilisi, mentre le forze dell’ordine timbrano i pochi passaporti in entrata, al Piccolo sono sufficienti i due minuti della coda per socializzare con una bambina mai vista, la quale balbettava poche parole in una lingua non meglio identificata. Ma le parole sono appunto un accessorio: alla porta scorrevole, mentre entriamo ufficialmente in Georgia, loro si presentano tenendosi per mano. L’espressione del Piccolo è trionfante, anche perché la sua nuova amica, che in un momento si dilegua insieme ai genitori, gli regala uno scintillante tubetto di bolle di sapone con logo di Barbie. Raggiungiamo il taxi in una scia di bolle colorate e mi lascio andare sul sedile a ricomporre i miei nervi: la Famiglia in Cammino ha appena vissuto il peggior volo della propria vita. Scendendo verso la pista ci siamo trovati in una zona di forti turbolenze, con relativo terribile effetto ottovolante; a tratti è sembrato addirittura che l’aereo fosse trascinato verso il basso. Se l’è vista brutta il Piccolo, che soffre un po’ di nausee e che aveva appena spazzolato l’abbondante vassoio con il pranzo; lui ha trascorso gli ultimi minuti urlando con quanto fiato aveva: Devo vomitare! (cosa che peraltro non ha fatto, a differenza di altri passeggeri). Io e il Papà ci guardavamo con espressione atterrita, e il sorriso tirato di chi non può permettersi crisi isteriche, per evitare prevedibili effetti sulla numerosa figliolanza. La Grande, peraltro, deve essersi accorta che qualcosa non andava, perché ha iniziato a bombardarmi con amene congetture (Stiamo per cadere? L’aereo precipita su Tbilisi? Non sopravvive nessuno?). Congetture alle quali ho prontamente risposto con un rassicurante Ma no amore, tutto sotto controllo in tono adeguatamente distaccato, mentre le nocche mi diventavano bianche per quanto stringevo il bracciolo. Lungi dal partecipare al panico generale, la Media alzava le braccia accompagnando il gesto con grida soddisfatte, nemmeno fosse stata sulle montagne russe al parco giochi. Lei ovviamente, non si è nemmeno accorta delle vecchiette georgiane che sgranavano il rosario; ha partecipato con entusiasmo, tuttavia, al liberatorio applauso generale una volta atterrati. Così, tanto per non perdere l’occasione di far baccano.
Siamo in Georgia. 

martedì 17 luglio 2018

come una diga

Non ho mai capito perché il giorno prima di ogni partenza sia come una diga. In serie interminabile, come per effetto di una corrente diabolica e inarrestabile, si accumulano commissioni urgenti, corrispondenza da sbrigare, documenti da rinnovare. Solo in parte sono incombenze connesse al viaggio: il tizio che l'altro giorno ha tamponato il Papà, per esempio, certo non sapeva che di lì a pochi giorni saremmo partiti per la Georgia, e che quindi il carrozziere si sarebbe aggiunto alla (già lunghissima) lista di cose da fare oggi. Poi il dentista della Grande e la Media, da un po' di tempo dotate di lucenti e costosi apparecchi. La carta di credito scaduta, un incontro di lavoro, raccomandate da spedire. Solo adesso mi immergo nel vortice del bagaglio, con poche speranze di riuscire nell'impresa. Da qualche anno la Grande e la Media non chiedono più il peluche preferito, cosa che mi mette un po' di nostalgia. Mi rifaccio seminando ciucci per il Piccolo in tutte le borse. Lascio a malincuore a casa smalto e tacchi, pensando che in viaggio è meglio essere sportivi. Scelgo un vasetto gigante di crema antirughe, perché in fin dei conti tanto sportiva non sono.
La Media, evidentemente, ha ereditato l'ossessione materna per lo scalpo della vigilia: proprio oggi, dopo anni di capelli lunghi e qualche mese di un vezzoso caschetto, ha chiesto e ottenuto i capelli corti. Un bel taglio, del resto, è storicamente il nostro rituale pre-viaggio.
Non serve altro.
Domani voliamo a Tbilisi.