giovedì 8 agosto 2019

svuotando la valigia arancione

Tiro fuori sempre prima gli spazzolini; lavarsi i denti è importante. E allo stesso modo è importante mantenere la routine, tornare alla normalità, rientrare. Mi viene in mente la sera in cui ho lavato i denti al Piccolo nel bagno del campo beduino di Dana; un bagno minuscolo e lontanissimo dalla nostra tenda nera, che era in bilico sul burrone, piena di formiche e di chissà cos’altro. Da lì la moschea del villaggio si sentiva appena. Oggi, imboccando lo svincolo dell’autostrada, il Piccolo ha chiesto quando sarebbe stato il prossimo canto di moschea, e come mai non si vedesse nessun minareto. Quando gli ho risposto che non ci saranno più invocazioni ad Allah, almeno per un bel pezzo, è rimasto interdetto. Ma poi ha pensato ai suoi giocattoli, il brutto peluche verde che gli tiene compagnia nel letto in Italia, e ha sorriso di entusiasmo: il mondo dei bambini è un eterno presente.
Tiro fuori il mio filo per stendere, le mollette, un rimasuglio di detersivo che non ho voluto buttar via. Viaggiamo leggeri, laviamo e stendiamo ovunque. C’è una marca di detersivo che in Italia non trovo, ma che ho comprato in Georgia, in Armenia, in Giordania, in un minuscolo flacone arancione. I panni stesi sulle nostre teste in albergo; la macchia sulla maglietta appena messa, che in viaggio è un po’ più grave, perché la lavatrice non c’è; ma tanto non c’è nemmeno la scuola, non ci sono impegni, nessuno ci conosce, a chi importa della macchia. Alcuni vestiti, sporchi in maniera irreversibile, li ho buttati via. Il bagaglio, al ritorno, è sempre un po’ più leggero. Non ci sono le scarpe da ginnastica dei bambini: già piccoline in partenza, piene della sabbia di Petra, indurite dal sale del Mar Rosso, sono rimaste là. Dal bagaglio della Famiglia in cammino, quello che faceva ammattire i tassisti, esce addirittura un set di pentole; e piatti e posate di plastica: quando possiamo affittiamo un appartamento; spesso costa l’equivalente di una camera, e in più ci permette di risparmiare sul ristorante. Il Papà riesce ovunque a preparare pasta con pomodoro fresco e formaggio; lo fa per la Grande, la Media e il Piccolo, che senza pasta proprio non riescono a stare. Souvenir della Giordania non ce ne sono: come sul Cammino, l’ordine è non caricare. Gli oggetti aggiungono semplicemente peso; quello che conta davvero sono i ricordi: il giorno in cui il Piccolo mi ha chiesto se il deserto fosse diventato la nostra casa; e non c’era panico nella sua voce, solo curiosità. Il giorno in cui la Media, dopo una lunghissima giornata camminando a Petra, ha preso il Piccolo sulle spalle, perché lui non ce la faceva più, e noi lo avevamo già portato tanto. Il giorno in cui la Grande ha iniziato a spalmarsi con il fango del Mar Morto, prima che tutti gli altri trovassero il coraggio. 
Dalla valigia, una gigantesca borsa arancione, escono gli ultimi pannolini: il Piccolo non ne ha più bisogno, nemmeno di notte. Che il grande passaggio sia avvenuto proprio durante un viaggio non è poi così strano: in fin dei conti lui ha imparato a camminare in Armenia. 
Le pinne che ci hanno portato dentro al Mar Rosso; la mia maschera che lascia entrare davvero troppa acqua. La maschera facciale del Piccolo, che ha scoperto i ricci, le stelle marine, e centinaia di pesci diversi, e la zia di Nemo, a strisce gialle. Quando mette la maschera riesce a stare a galla senza braccioli, e quindi adesso tenta di scappare anche in acqua. I pantaloni lunghi per me e le ragazze, perché la Giordania è pur sempre un paese musulmano: niente calzoncini corti, per nessuna; le felpe che non abbiamo usato mai, nemmeno una volta, se non per l’aria condizionata in aereo. Ma adesso il volo è atterrato. I bambini sono felici. La Media esulta: finalmente domani potrà correre in libreria a comprare il prossimo volume della saga di Harry Potter. Cerco di scacciare la malinconia per il viaggio che avevamo atteso tutto l’anno e che oggi si conclude. Niente più canto di moschee, hummus a colazione; niente più paesaggi bruciati dal sole. Eppure i bambini hanno ragione: l’unica scelta possibile è continuare a camminare, anche qui. 
Buon cammino a tutti. 

mercoledì 7 agosto 2019

il canto delle moschee

Madaba
Il Piccolo adora le moschee. Ama la loro architettura, col minareto sempre un po’ più in alto delle costruzioni circostanti. Ama le luci di cui spesso sono decorate, e che brillano di notte più delle insegne dei negozi. Ama soprattutto la voce del muezzin, che scandisce ovunque la giornata. A dir la verità non penso che abbia capito bene cosa sia una moschea, perché tende ad associarle ai numerosi castelli che abbiamo visitato durante il viaggio. Il dialogo che segue si ripete varie volte al giorno:
- Mamma! Mammaaaa, guarda! Quel castello è una moschea?
- Sì, amore, è una moschea, ma non è un castello. Il castello è un’altra cosa...
- Mamma, ma a cosa serve una moschea?
- La gente ci va per pregare…
- Perché adesso la moschea non canta? Quand’è che canta? 
Se invece è ora di preghiera, e quindi il canto si sente, invariabilmente il Piccolo ci avverte: - Ascoltate! La moschea sta cantando! Cosa canta, mamma? 
Evitiamo di ripetere il canto per strada, nel timore che i passanti fraintendano, ma nel chiuso delle nostre stanze abbiamo ripetuto più volte le parole del canto delle moschee. In macchina da oggi non potremo più farlo, perché l’abbiamo restituita all’autonoleggio. Domani all’aeroporto andremo in taxi; la Kia, nel frattempo, avrà bisogno di una bella lavata. 
Anche la Grande e la Media hanno subito il fascino del mondo musulmano: hanno imparato qualche frase in arabo, hanno mille curiosità sull’Islam e non smettono di guardare le donne velate. Dopo mille esitazioni hanno imparato ad apprezzare anche il cibo. Continuano a chiedere spaghetti e pizza, ma anche qui hanno alcuni piatti preferiti. Il ristorante di stasera lo ha scelto la Media; una bettola per locali: pollo, riso piccante, divanetti per terra e niente posate. 
Mentre rientriamo in albergo, sentiamo le moschee cantare. La gente stende i tappetini per terra, dove capita, e prega. Il sole è appena tramontato. 

martedì 6 agosto 2019

meravigliosamente relativo

Aqaba
Il viaggio in Giordania è stato caratterizzato da forte nomadismo, come piace a noi. Massimo tre, più spesso una o due notti nello stesso posto, tanto che i nostri figli a volte si sono lamentati di questo continuo spostarsi. I bambini crescono in altezza, e per questo hanno bisogno di radici. Ad Aqaba siamo ormai da quattro giorni, e già ci sembra di essere autoctoni. Il Piccolo chiama “casa” il minuscolo appartamento in cui alloggiamo. C’è un fornello con bombola arrugginito, il bagno si allaga ad ogni singola doccia e in giro si vede pure qualche scarafaggio, ma lui si lamenta solo perché non ha giocattoli. Il resto non lo vede: è casa. Ha anche imparato a fare capolino nella stanzetta del custode, facendosi regalare ogni volta un lecca lecca. Il lecca lecca viene prontamente sequestrato dalla Madre, perché fa male ai denti, e ogni volta il Piccolo ribatte: Ma io mi ero affacciato a salutare apposta…
Alla spiaggia libera numero 3, dove siamo tornati più volte in questi giorni, ormai la gente viene a salutarci. Appena arriviamo ci prestano un paio di tappeti da stendere all’ombra (probabilmente, così mal equipaggiati, facciamo un po’ pena) e ci offrono un tè preparato sui fornelletti che i giordani portano da casa in spiaggia. Un ragazzo conosciuto l’altro giorno, che ha uno zio in Norvegia e il sogno di trasferirsi in Europa, oggi si è avvicinato e ha indicato la Grande e la Media: Le vostre figlie - mi ha detto - sono bellissime. Sono chiare come pesci e dolci come gattini. Stateci attenti. Poi ha imbracciato le pinne e si è diretto verso il Japanese Garden, una formazione corallina dove bazzicano anche le tartarughe, che noi purtroppo non siamo riusciti a vedere. Abbiamo però affrontato la nostra seconda immersione, questa volta a 18 metri di profondità, entrando nel relitto di un aereo. Le guide hanno più volte fatto i complimenti alle ragazze, che sono state all’altezza della situazione; la Media ha avuto un problema con la maschera, ma non ha fatto una piega ed è riuscita a cambiarla mentre era in acqua. La Grande ha ricevuto in regalo la collana che un istruttore si è sfilato poco dopo l’immersione: Così - le ha detto - ti ricorderai della Giordania
La sera ci sentiamo a casa anche nel ristorante economico dove siamo andati tre volte. Oggi, dopo cena, ci hanno regalato il dolce per tutti: mutaqqab, a base di pasta sfoglia, tantissimo zucchero (i dolci arabi possono essere stucchevoli) e ricotta. Per i vostri figli - ci ha detto il cameriere - che sono davvero educati. 
Oggi, peraltro, siamo andati a mangiare molto tardi; prima di cena, a fine giornata, ci siamo fatti preparare un narghilè alla mela sulla spiaggia (qui i narghilè sono praticamente ovunque) e ci siamo goduti il tramonto. Mentre guardavamo il sole sparire dietro le colline dell’Egitto, e intorno a noi imperversava il trambusto delle famiglie giordane con le loro grigliate, si è avvicinato un altro ragazzo con cui abbiamo a volte scambiato qualche parola: Volevo salutarvi - ha detto - e farvi i complimenti. Siete una bella famiglia. I bambini sono molto educati; non li ho mai sentiti urlare, è incredibile.
Aspiro un po’ più forte, l’acqua della pipa gorgoglia. È la terza volta, solo oggi, che qualcuno ci fa i complimenti per i bambini. Mi rendo conto che qui sembriamo molto chiari di pelle, quando in Italia abbiamo la carnagione scura. Qui siamo una famiglia piccola, in Italia spesso i più numerosi siamo noi. Qui siamo i più silenziosi, in Italia ci facciamo sempre riconoscere. Poco, molto, chiaro, scuro. Come possiamo essere diversi, ma a casa anche qui. Com'è tutto meravigliosamente relativo. 

lunedì 5 agosto 2019

la zia di nemo

Aqaba
La Famiglia in cammino è ufficialmente entrata in mare. Oggi le donne del gruppo hanno affrontato la loro prima immersione con bombola. Il Papà, da tempo dotato di brevetto e quindi meno desideroso di sperimentare, è rimasto sulla riva a rimpinzare di pesche il Piccolo, purtroppo rientrato in una stressante fase di alimentazione fruttariana. 
La Grande e la Media erano fiere e baldanzose. Loro, del resto, sono già in grado di scendere diversi metri sott’acqua in apnea, e sanno compensare bene col naso la pressione nelle orecchie. Hanno solo avuto bisogno di aiuto per indossare la bombola, che non avrebbero avuto la forza di trasportare dalla pensilina alla riva. Io, al solito, le seguivo passo passo, ostentando tranquillità per nascondere lo spavento mortale di cui ero preda. Per fortuna nessuno è in grado di leggere nel pensiero, perché credo di aver maledetto varie centinaia di volte il momento in cui ho dato il mio consenso. Ovviamente, però, ho indossato la mia miglior faccia da nessun problema, penso io a voi e intanto arrancavo sotto il peso della bombola, della zavorra, soffocata dalla muta, impedita dai calzari. La vestizione del sub mi è parsa la cosa più complicata del mondo. Ma il vero momento di panico è stato quando l’istruttore mi ha dato la spinta per mettere la testa sott’acqua: diciamocelo, è un atto contrario all’istinto di sopravvivenza. Il bello dei figli, però, è che ci spingono a fare cose che mai avremmo pensato potessero interessarci; e solo dopo ci lasciano scoprire che ci siamo divertiti anche noi. Qui nel Mar Rosso, in effetti, sott’acqua c’è un vero paradiso (sempre che uno riesca per qualche minuto a dimenticare l’esistenza del pesce pietra), con pesci e coralli di ogni forma e dimensione, numerosissimi e nemmeno troppo spaventati dall’uomo. La costa, inoltre, è piena di relitti di ogni forma, alcuni dei quali lasciati affondare di proposito e adesso pieni a loro volta di coralli; ieri ed oggi, per esempio, sono bastati i nostri boccagli e le nostre maschere (nella mia entra pure l’acqua) per andare a vedere una nave e perfino un carro armato, sul fondo a pochi metri dalla spiaggia. Oggi la Media aveva un istruttore solo per sé, un altro seguiva me e la Grande. Alla fine l’immersione è durata poco meno di un’ora per dodici metri di profondità. 
Nel frattempo, anche il Piccolo si cimenta con la visione subacquea. Finalmente si è convinto ad indossare la maschera che gli abbiamo comprato, con la quale respirare è facile perché ha il boccaglio incorporato e copre tutto il viso. Una rivelazione: i coralli sono talmente vicini che anche lui è riuscito a vedere i pesci colorati, salutandoli con cenni e urla. Gli avevamo assicurato che avrebbe visto anche Nemo, protagonista di uno dei suoi cartoni animati preferiti. Nemo, però, oggi non si è avvicinato alla riva. 
- Mamma - mi ha detto il Piccolo quando siamo usciti tutti dall’acqua - perché non c’era Nemo?
- Non lo so, amore… forse era andato a nascondersi nell’anemone, insieme al suo papà…
- Però ho visto un pesce a strisce gialle… gialle, non bianche… era quello Nemo?
- No, amore, Nemo è arancione con strisce bianche.
- Mmmm. Io ne ho visto uno a strisce gialle. Forse era la zia di Nemo. 

domenica 4 agosto 2019

pesce pietra e i suoi fratelli

Aqaba
Senza dubbio c’entra il fatto che l’uomo moderno si è irrimediabilmente allontanato dalla natura. Può darsi pure che sia una mia personale paranoia. Fatto sta che, dovunque io mi diriga nel mondo coi miei figli, trovo sempre ad attendermi un animale sconosciuto e mortale. Dopo la cubomedusa australiana, le zanzare cingalesi, gli scorpioni del deserto, il mio nuovo nemico ha un nome apparentemente innocuo: pesce pietra. Cosa c’è di più innocuo di una pietra? Una grigia, informe, immobile pietra? Eppure l’altro giorno, quando cercando su internet i migliori siti per lo snorkeling mi sono imbattuta nel pesce pietra, ho sentito gelarsi il sangue. Il maledetto, oltre a mimetizzarsi perfettamente con i colori della barriera corallina, che qui è davvero a pochi metri dalla riva, possiede aculei con relativo veleno mortale. Il veleno viene iniettato a scopo difensivo e a pressione, ovvero inoculato soltanto se gli aculei vengono calpestati o toccati con le mani. La miglior misura di sicurezza, quindi, è entrare in acqua sempre con le scarpe. Quelle che i bambini hanno usato per i tour nel deserto sono veramente ridotte male, tanto che le avevo già destinate al cassonetto: per fortuna non le avevo ancora buttate via, e quindi le ho riconvertite all’uso in acqua. Siamo piuttosto ridicoli ad entrare in mare con le scarpe da ginnastica, ma in compenso ci difendiamo dal nemico. Mi sento inoltre fortemente in colpa per aver permesso ai bambini, il primo giorno, di bagnarsi scalzi. Il destino ci è stato favorevole, o forse il nemico non si era ancora accorto del nostro arrivo; comunque sia, non è successo nulla, ma per compensare quell’atto di incoscienza ho vietato a tutta la famiglia di stare anche in prossimità dell’acqua senza le scarpe. Sia mai che qualche disgraziato pesce pietra non decida di andare a vedere com’è il bagnasciuga. Va detto che le ragazze di solito entrano in acqua con maschera e pinne, e quindi troppe raccomandazioni non sono necessarie. Ma trasmettere un po’ di angoscia materna è sempre un modo efficace per obbligare alla prudenza, e quindi non mi stanco di ripetere che barriera corallina significa anche pericolo. Il maledetto pesce pietra, tra l’altro, presenza fissa nei miei incubi di questi giorni, è in buona compagnia; non mortali, ma comunque pericolosi sono anche i coralli stessi (alcuni tagliano se solo li si sfiora), le meduse (qui particolarmente urticanti, tanto da causare ustioni) e, non ultimo, il pesce leone, che ha ben 18 pinne dorsali aguzze come pungiglioni, e relativa tossina velenosa. Pesci leone, tra l’altro, le ragazze ne hanno già visti parecchi quando si sono immerse. Oltre a un paio di barracuda. Piccoli, ma sempre barracuda. Certo nuotare nel Mar Rosso ha un grande fascino; ma anche la riviera adriatica ha il suo perché…

sabato 3 agosto 2019

spiaggia libera numero 3

Aqaba
La temperatura è la stessa, anzi forse qui c'è perfino più caldo. Eppure ci fa uno strano effetto passare in un giorno dal deserto di Wadi Rum al Mar Rosso. Di fronte a noi adesso c’è un pezzettino di Israele, e poi la costa egiziana. Nel mezzo, la barriera corallina, che pare sia più bella dall’altro lato, ma sempre di barriera corallina si tratta. Non per nulla la Famiglia in cammino è arrivata in Giordania attrezzata di maschere e pinne per tutti, incluso il Piccolo, il quale al momento non ne vuole sapere e preferisce paletta e secchiello. 
Poiché si avvicina la fine del viaggio, e anche la fine delle finanze, optiamo per la spiaggia libera, e qui ci troviamo in mezzo a decine di famiglie giordane con relativi numerosissimi figli. Ma non è più questo a stupirmi; il fatto è che vedere come i giordani arrivano in spiaggia è qualcosa di non paragonabile con il nostro concetto di andare in spiaggia. È molto più vicino alla nostra idea di trasloco. Io ho la scusa del fatto che sono in viaggio, e quindi non posso avere molti oggetti con me; ma anche a casa, quando vado al lago, mi sento una madre previdente e organizzata quando mi ricordo il telo grande da stendere per terra. Niente a che vedere con l’organizzazione delle famiglie di qui. La madre giordana arriva decisa, curva sotto il peso dei bagagli e dei bambini piccoli, e comincia ad allestire un accampamento: stende per prima cosa un paio di enormi kilim. Ci sistema sopra qualche materasso di gomma piuma. Accomoda alcuni cuscini rigidi che facciano da schienale. Intorno a lei comincia a sciamare una moltitudine di creature saltellanti, e la madre giordana non si scompone; mentre io ho spedito i miei figli al corso di nuoto prima possibile, in modo da liberarmi di pensieri e braccioli, la madre giordana estrae da una borsa e gonfia salvagenti a ripetizione: abbiamo notato che molti, anche adulti, non sanno nuotare. Assegnata una papera gonfiabile ad ogni figlio, la madre giordana procede imperturbabile: mentre io ho portato la bottiglia da un litro e mezzo d’acqua, già diventata brodaglia nel tragitto dal parcheggio al bagnasciuga, lei dispone all’ombra un contenitore termico da venti litri, ovviamente munito di pratico rubinetto. Mi sento già annichilita e nel frattempo arriva il padre di famiglia giordano. Mentre io considero fondamentalmente scocciante mangiare al mare, e quindi accampo ogni scusa che possa condurre al digiuno di famiglia (ma il Papà mi ostacola fieramente, armandosi in autonomia di panini per tutti), il padre giordano dispone sui materassi, preventivamente sistemati dalla moglie, chili di carne, pane, verdura; mentre la moglie, serafica, infila cipolle nello spiedino, il padre giordano monta e accende il barbecue portatile che ha estratto poco prima dall’auto e comincia ad arrostire sul fuoco qualsiasi cosa. Il tutto raggiunge la sua apoteosi il venerdì sera (venerdì è il giorno festivo dei musulmani): ieri, alla spiaggia libera numero 3, sud di Aqaba, pareva che ci fosse una gara di barbecue, con relative fiamme alte. Ma anche oggi non si scherzava. C’è perfino chi ha portato da casa il proprio personale narghilè, in modo da rilassarsi mentre cucina. 
Il tutto, soprattutto se mi metto nei panni della madre giordana, assume i contorni della tortura, perché la giornata in spiaggia assomiglia ai lavori forzati. Non si dimentichi, inoltre, che pure il bagno rinfrescante non è una cosa semplice per la madre giordana, che entra in acqua coperta da capo a piedi, veste lunga e velo inclusi; di solito, quindi, le donne bagnano solo un po’ le gambe. I turisti occidentali tendenzialmente non vanno nelle spiagge libere e preferiscono gli stabilimenti a pagamento. La cosa mi crea qualche disagio, perché il mio bikini è l’unico in tutta la spiaggia, e quindi preferisco indossare una maglietta. Cerco di staccarmi di dosso la stoffa bagnata e intanto osservo il chiassoso, esuberante, eccessivo panorama umano intorno a me. I bambini continuano a sciamare ovunque, i padri ad arrostire sul fuoco, le madri a sistemare cuscini, sdraio, perfino mobiletti. E in questo enorme, divertente, colorato caos, oggi c’eravamo anche noi. 

venerdì 2 agosto 2019

notte sotto le stelle

Wadi Rum
Da quando era neonato, e teneva sveglio tutto il caseggiato con le sue urla notturne, il Piccolo ha un particolare gesto d’amore: gli piace accarezzare le ciglia. È un gesto riservato a pochi intimi: io, il Papà, la nonna. Il Piccolo mi accarezza le ciglia prima di andare a scuola materna, se anch’io sono a casa. Oppure prima di andare a dormire. O quando arriviamo in un posto nuovo, in cui ancora non si sente a suo agio. La notte scorsa è rimasto accoccolato sul mio fianco, con le mani sui miei occhi, a ripetermi paroline dolci come un fidanzato. Del resto la situazione era da film romantico: abbiamo dormito sotto le stelle, con un tappeto e qualche materasso per terra. 
Sopra di me il cielo stellato, diceva Kant. E fin qui ieri c’era anche la Famiglia in cammino; sorridente, eccitata e sporca di deserto. Ma poi Kant proseguiva: Dentro di me la legge morale. E su questo c’è da migliorare: vicino a me avevo tre bambini esagitati, che sgomitavano per un pezzo di coperta ed indicavano costellazioni a caso, ad alta voce, spaventando animali (pochi) e uomini (ancor meno) nel giro di qualche chilometro. I Sauditi, a pochi chilometri da noi, avranno di certo sospettato pericolosi disordini politici e saranno stati felici della loro frontiera chiusa.
In realtà dormire sotto le stelle coi bambini ha una serie di lati positivi, ma anche alcuni lati negativi. La Mamma in cammino è rimasta sveglia fino più o meno alle 3, e quindi è in grado di stilare un elenco, dividendo le voci:
Aspetto positivo: si vede il cielo come non lo si è visto mai. La Via Lattea appare in tutto il suo spettacolo, riconoscibile per chiunque, perfino per noi. Di stelle cadenti, in una notte sola, credo di averne visto una cinquantina, senza esagerazioni. Ad un certo punto ho pensato - le assurdità che uno pensa di notte - che fosse una buona idea esprimere sempre lo stesso desiderio. Se il diritto ad esaudirlo spetta a chi lo ha espresso più volte, sono candidata alla vittoria.
Aspetto negativo: i bambini non hanno chiarissimo il fatto che, se si mettono due materassi per terra, non si può avere lo stesso spazio che si ha nel proprio letto. Quindi si muovono, si girano, si appropriano di coperte e cuscini senza farsi domande. E in breve tempo, complice una lieve pendenza nel terreno, mi sono trovata a dormire proprio sulla nuda terra. La mia schiena ancora ringrazia.
Aspetto positivo: dormire vicini-vicini, stretti l’uno all’atro mentre fuori tutto è immenso, ha davvero qualcosa di poetico. Quand’erano piccole, la Grande e la Media venivano nel lettone la domenica mattina. Ora non lo fanno più da un po’, ma ogni tanto ci vorrebbe. Le coccole del Piccolo me le ricorderò per sempre. E anche la manina tesa della Media, a cercare la mia, quando si è svegliata durante la notte.
Aspetto negativo: la paura. I miei timori radicati di donna occidentale hanno assunto le sembianze di uno scorpione. Non mi ricordo dove ho letto che gli scorpioni amano il calore, e quindi durante la notte tendono ad infilarsi nelle scarpe o sotto i letti. Ho pensato che le nostre coperte potessero essere attraenti, e quindi ogni dieci minuti mi alzavo e le scuotevo per scacciare eventuali intrusi muniti di pungiglione. Ovviamente nemmeno l’ombra di uno scorpione. Nemmeno una formica. Niente.
Aspetto positivo: l’eccitazione dei bambini. Era commovente vedere il loro spirito d’avventura, la loro speranza che questa notte non finisse mai. È commovente vedere come il massimo del divertimento per loro coincida ancora con la trasgressione in compagnia di Mamma e Papà. Me lo devo ricordare, perché non durerà per sempre. Anzi, non durerà per molto. 
Aspetto negativo: l’eccitazione dei bambini. Ovviamente il tempo impiegato per addormentarsi è stato decisamente superiore al solito, con contorno di litigi, pianti e manate. Il che può togliere un po’ di poesia.
Aspetto positivo: l’alba. L’alba rosa, col sole che arriva piano pianissimo da dietro la montagna, come uno non lo vede mai perché sta sempre dormendo. E accorgersi che sì, stiamo ancora tutti bene, gli scorpioni erano solo nella mia testa, e i bambini sono riusciti a dormire perfino più di quello che pensavo io. E non c’è stato troppo freddo, non c’è stato troppo vento, soltanto c’era la sensazione della libertà.
Forse nella mente dei miei figli altri ricordi arriveranno a sbiadire questo. Arriveranno altre compagnie, altri amori, altri viaggi. Forse questa notte abbracciati a Mamma e Papà dovremo ricordargliela noi, perché sarà sepolta in un angolo polveroso della loro mente. Ma io questa paura degli scorpioni, queste stelle cadenti, e le carezze dei miei figli e ai miei figli, e quest’alba, tutto porterò sempre con me. 

autostrada nel deserto

31 luglio 2018
Wadi Rum

Il nome dice tutto: Desert Highway. Non assomiglia molto alla nostra idea di autostrada, ma nel deserto ci siamo di sicuro. Abbiamo visto scorrere, di fianco a noi, decine di accampamenti beduini con relative tende, pecore e capre. Abbiamo dovuto fermare l’auto perché un gruppo di dromedari era in mezzo alla strada, e poi abbiamo pazientato qualche minuto perché un cucciolo stava finendo la poppata, e quindi la madre si muoveva con lentezza. Siamo arrivati a Wadi Rum. Il paese è vicinissimo all’Arabia Saudita (ma qui la frontiera è chiusa) ed è praticamente sparpagliato: conta circa 1500 abitanti sparsi tutt’intorno (la maggior parte vive in tenda sostenendosi con l’allevamento), i quali gravitano su un minuscolo centro, con qualche negozio - frutta e verdura poche e carissime - un posto di polizia, la scuola pubblica, divisa in maschi e femmine. A scuola i bambini ricevono i tre pasti quotidiani, perché pensare di tornare al proprio accampamento è impossibile, ed assolvono l’obbligo fino ai 12 anni. Tutto intorno è deserto vero: sabbia, sabbia, sabbia e alcune grandi formazioni rocciose che si incendiamo di rosso al tramonto. Pare che Lawrence d’Arabia vivesse qui, o ci abbia vissuto per qualche tempo, in una casetta di mattoni sotto un’enorme roccia. Oggi dormiamo qui, in un accampamento con tende beduine, bagni in comune (con preghiera di non sprecare acqua, che qui è preziosa e costa anche parecchio), illuminazione a candele. I bambini sono rimasti un po’ intorno al fuoco ad aspettare, seduti sui tappeti, e poi abbiamo assistito alla magia della cena: la carne e la verdura erano state infilate in un grande contenitore metallico a due piani e poi messe a cuocere sotto la sabbia. Per dissotterrare il tutto ci è voluta la vanga, ma ne è valsa la pena: pasto squisito. Non c’è elettricità, nessun wifi, i cellulari non hanno nessun segnale. In compenso il cielo non ci è mai parso così stellato. 

martedì 30 luglio 2019

donkey taxi

Wadi Musa
Oggi abbiamo sbagliato i tempi; l’intenzione era quella di rivedere Petra e completare la visita, ma in una luce diversa; quindi abbiamo dedicato la mattina al museo (o meglio, a guardare qualcosina di sfuggita, poiché il Piccolo ha deciso che le installazioni sull’antichità non fanno per lui - e ha manifestato questa decisione con molti decibel) e nel pomeriggio siamo entrati di nuovo al sito. Abbiamo visto le tombe reali: al pomeriggio, quando i raggi del sole le colpiscono direttamente, la roccia prende tinte così forti che sembrano pennellate, il tutto per altezze di decine di metri; poi io e la Grande siamo andate alla chiesa bizantina, che nasconde ancora splendidi mosaici, ma si trova in cima ad un sentiero che ha spaventato gli altri tre quinti della famiglia; quindi siamo arrivati ai piedi della salita al Monastero; si tratta in realtà di un’architettura scolpita nella roccia che serviva probabilmente per incontri religiosi, e che solo in una fase successiva è stata convertita all’uso cristiano. Il monumento è impressionante, alto poco meno di 50 metri e altrettanto largo, ma si trova al termine di una salita lunga e ripida. Preferiamo che i bambini la affrontino a dorso di asino; mi lancio quindi in una lunga contrattazione sul prezzo, che rimane a parer mio uno dei momenti divertenti della giornata; non perdo la calma, scambio due battute; alla fine riesco a spuntare la metà della tariffa che mi avevano proposto, ma intanto l’affare è andato per le lunghe. 
Ci rendiamo rapidamente conto che inerpicarsi sulla salita è poco meno di una follia, perché gli asini, di cui è nota la testardaggine (e oggi ho capito perché) si ostinano a seguire i percorsi più comodi per loro, che sono invariabilmente a bordo di dirupo, possibilmente su rocce aguzze. Il tutto saltellando e sgroppando. Il fatto di trasportare i miei figli non sembra loro un motivo sufficiente per essere più prudenti del solito. Saliamo al Monastero - e soprattutto scendiamo, ma ormai non abbiamo alternativa - col cuore in gola. Per un tratto mi prendo il Piccolo sulle spalle: farlo scendere per questo sentiero in equilibrio precario, su un asino inquieto e accompagnato da un beduino chiacchierone, è troppo perfino per me. Alla fine siamo felici di aver visto il Monastero: è uno dei monumenti più famosi di Petra, e senza cavalcatura i bambini avrebbero fatto troppa fatica: le temperature sono altissime. Io e il Papà abbiamo solo bisogno di riaverci un attimo dalla tachicardia da ansia che ha preso entrambi, e poi ci guardiamo intorno. È tardo pomeriggio e a Petra non c’è quasi più nessuno. Evidentemente le orde di turisti che ieri abbiamo visto arrivare alle 8 se ne sono andate subito dopo pranzo. Potremmo esultare, e per un attimo lo facciamo, perché abbiamo la città tutta per noi con le ultime luci; ma è solo un attimo. Poi ci rendiamo conto che, insieme ai turisti, sono spariti anche asini, dromedari, cavalli e carrozze. Diversamente da come avevamo progettato (e promesso) dobbiamo riguadagnare l’uscita a piedi: sono diversi chilometri di strada sassosa, al termine di una giornata faticosa. La Grande e la Media arrancano, il Piccolo crolla: dobbiamo trasportarlo io e il Papà a turno, un po’ in braccio e un po’ sulle spalle. Il Papà soffre di mal di schiena, e quindi faccio quello che posso per trasportare io il Piccolo, col risultato che all’arrivo siamo tutti sfiniti. Il lato, positivo, però, è che abbiamo risparmiato i soldi della carrozza, con i quali possiamo permetterci tre spremute di mango fresche per accompagnare la cena dei nostri giovani eroi. E abbiamo anche la forza di ragionare su cosa ci è piaciuto di più a Petra. 
La Grande: La tomba di seta. I colori della roccia erano incredibili, passavano dall’arancione al viola e al rosa. Ha fatto bene il costruttore a non esagerare con le decorazioni, per non distogliere l’attenzione dai colori.
La Media: Il Monastero. Era grandissimo, molto più grande di come l’avevo immaginato. 
Il Piccolo: Gli asini e i cavalli. Era una scuola per imparare a cavalcare, vero?

lunedì 29 luglio 2019

più monumentale, più impressionante, più arancione

Wadi Musa
Petra è più di quel che si può immaginare, più di quel che si può dire, più di quel che si può raccontare. Monumentale, arancione, impressionante ben oltre quel che immaginavamo. 
Le tombe regali, scolpite nella roccia (che conferisce il caratteristico colore arancio-rosa, secondo la luce), alte decine di metri e finemente decorate, sono probabilmente i monumenti più noti. Ma la città, fiorita a partire dal I a.C.,  aveva anche un teatro, diversi templi e, dopo l’annessione all’impero romano, un Cardo colonnato. Ancor più avanti fu aggiunta una chiesa bizantina, che conserva ancora magnifici mosaici.
Ci arriviamo al mattino presto; parliamo di questo sito da quando siamo partiti e quindi anche i bambini sono molto eccitati. Raccontiamo loro la storia del giovane esploratore svizzero, che riuscì ad imparare perfettamente l’arabo e a trasformarsi in un beduino del deserto, fino a venire a conoscenza del segreto della città sepolta, che le popolazioni locali custodivano gelosamente. Fu lui, nei primi anni dell’Ottocento, a scoprire questa meraviglia, all’epoca del tutto sconosciuta al mondo.
A Petra, capitale dell’impero nabateo, si arriva dopo aver percorso un lunghissimo canyon con alte pareti rocciose, frutto di una spaccatura nella terra dovuta ad antichi movimenti tettonici. Il Piccolo si appropria della cartina e la guarda con piglio da condottiero; vuole essere lui a guidare la spedizione; arriva perfino a promettere gelati e altre piccole ricompense a chi sarà in grado di camminare fino alla città senza lamentarsi. Arriviamo alla prima facciata di Petra, la più famosa, il cosiddetto “Tesoro”. Si tratta in realtà di una gigantesca sepoltura (altezza complessiva circa 40 metri), in cima alla quale si trova un’urna di pietra. Le leggende beduine dicono che un faraone egizio vi abbia nascosto il suo tesoro, durate una spedizione all’inseguimento degli israeliti. Qualcuno deve averci creduto, perché l’urna oggi è inutilmente crivellata di colpi di fucile. 
Oltre che monumentale, la città è enorme; all’interno c’è anche un notevole paesaggio umano: bancarelle un po’ in tutti gli angoli, bar con bibite a prezzi folli e decine di beduini che offrono ogni tipo di cavalcatura per muoversi all’interno del sito: ci sono dromedari, cavalli e asini. Questo, in effetti, per noi si rivela un ottimo espediente; dopo un primo momento di entusiasmo, e passato il fresco del mattino, i bambini non ce la fanno a proseguire: cavalcare gli asini è un ottimo modo per evitare la fatica e aggiungere divertimento. I percorsi sono stabiliti, i prezzi no, e quindi mi diverto a contrattare. Proseguiamo la nostra visita passando per il tempio dei sacrifici (con grossi canali di scolo per il sangue), il teatro (che fu ampliato dai Romani, i quali pensarono bene di distruggere alcune tombe per far posto alle ultime gradinate), il tempio maggiore (che ha una superficie di ben 7000 metri quadri). 
Nel primo pomeriggio decidiamo di tornare indietro: nonostante l’aiuto dei cavalli e degli asini, nonostante le soste all’ombra per bere, i minorenni della famiglia sono a pezzi; il Piccolo, letteralmente, collassa: non cammina più e non mi sembra un capriccio; lo prendo in braccio, mi avvio verso il canyon e verso l’uscita, prometto che potrà fare il pisolino in albergo, sul suo letto fresco. Lui annuisce e piange silenziosamente, mi si appoggia sulla spalla e si addormenta all’improvviso. Non riesco a proseguire con lui così abbandonato addosso; troviamo una panchina all’ombra. Oggi il sonnellino è in braccio alla mamma, nel canyon che porta alla città dei nabatei. 

domenica 28 luglio 2019

in viaggio con loro

Wadi Musa
Gli arabi - e i giordani non fanno eccezione - hanno una fortissima propensione verso i bambini. Chiunque, uomo o donna che sia - soprattutto gli uomini, in verità - non ha nessun problema ad avvicinarsi ai figli altrui (soprattutto il Piccolo, nel nostro caso), accarezzarli e baciarli. Ammetto che non sono entusiasta di questo (non amo che i miei figli siano accarezzati e sbaciucchiati da sconosciuti) ma metto un freno alla lingua e lascio che anche la coccola imprevista rientri nel folclore locale. C’è, in effetti, anche qualche risvolto positivo: in Giordania non esistono, o sono più uniche che rare, le attività pensate per i bambini; nei ristoranti non esistono seggioloni, di cui comunque ormai non abbiamo bisogno, né sono contemplati i menu-baby. Eppure tutti si fanno sempre in quattro per accogliere i nostri figli - gli unici viaggiatori minorenni che abbiamo incontrato fino ad oggi - e per farli sentire a loro agio. Ieri, al campo beduino, uno dei gestori ha regalato una decina di biscotti confezionati al Piccolo, e poi è riuscito a materializzare perfino un peluche di Bambi da lasciargli. Anche le ragazze riscuotono un certo successo: ricevono spesso in dono caramelle e dolcetti, oltre a parecchi complimenti per il loro inglese. Hanno imparato ad accettare gli omaggi, per non offendere le persone da cui provengono, e a ringraziare e salutare in arabo, cosa che diverte loro e gratifica gli interlocutori. Il fatto di essere una delle poche famiglie in viaggio ci pone in una posizione un po’ privilegiata, perché attiriamo gli sguardi, anche se non si può certo dire che in generale qui i bambini manchino: ieri abbiamo incontrato una famiglia giordana della nostra età con otto figli, e la norma è quattro o cinque. Noi quindi ci sentiamo in pochi, ed è una sensazione che difficilmente proviamo in Italia. 
Viaggiare come famiglia è certamente un grande divertimento, ma comporta anche una dose di fatica: camminare sotto il sole con prole non è sempre facile: oggi, per esempio, la Media e il Piccolo hanno fatto mille storie per visitare il castello crociato di Shawbak, che domina la valle in una spettacolare posizione panoramica. Lamentele che si sono poi ripetute a Little Petra, un sito nabateo molto più piccolo della famosa Petra, di cui probabilmente era un sobborgo, ma comunque mozzafiato per le architetture scavate nella roccia e per i paesaggi. Mentre cercavo di convincere il Piccolo a percorrere una scalinata di pietra fino al belvedere, ci ha sorpassato un’intera comitiva di decine di cinesi vocianti e senza bambini piccoli. 
Con il cibo va decisamente meglio, anche se i bambini non smettono di chiedere spaghetti; la cosa è piuttosto seccante, considerando che qui la pasta è difficile da trovare, generalmente scotta e sempre molto cara. Ammetto, tuttavia, che oggi abbiamo ceduto, con grande disappunto mio e del Papà, che invece abbiamo mangiato una specialità beduina: mansaf, ovvero agnello, riso e pinoli con salsa agrodolce. Delizioso. Ma la Grande, la Media e il Piccolo non l’hanno nemmeno assaggiato. 
Quello che ci mette davvero alla prova, tuttavia, sono gli spostamenti in auto: i bambini litigano per chi berrà per primo dalla bottiglia; la Grande e la Media litigano per il posto (il Piccolo no, ma solo perché ha il seggiolino); poi litigano per chi scenderà per primo. Poi per chi salirà per primo. Litigano per un legnetto, per uno sguardo, per una parola. E questo - lo confesso - a volte mi sega i nervi. 
A Little Petra, mentre il Piccolo continua a piagnucolare, tirandomi i pantaloni a rischio che cadano, guardo la comitiva orientale che ci trotta al fianco e ci sorpassa. Non so se viaggiare coi bambini sia più difficile, più divertente o semplicemente diverso. So che non riesco più a immaginare altro. A volte sogno un mini-club a Riccione; più spesso mi dico che il nostro viaggio è questo; è così che ci piace; sorrido, sorrido veramente, me lo prendo in braccio e gli lascio fare gli ultimi metri di cammino con la testa sulla mia spalla. 

sabato 27 luglio 2019

tenda sul burrone

Dana
Il gelsomino, che pure mi ricorda l’infanzia, non è stato sufficiente a trattenerci. A parte l’antipatia del gestore, l’alloggio era un vero disastro. Bagno sporco, doccia con acqua solo bollente (quindi niente doccia), e il peggiore attacco di zanzare che l’uomo ricordi; a parte il Piccolo, che ha una bella zanzariera sul suo lettino da viaggio, nessuno di noi è riuscito a chiudere occhio. Ne ha sofferto in particolare la Media, che per motivi misteriosi attira gli insetti e oggi ha qualcosa come trenta punture disseminate su tutto il corpo. Le va riconosciuto che non ne sta facendo affatto un dramma, ma in tutto questo noi abbiamo preferito andarcene. Abbiamo dunque levato le tende per finire in una tenda vera: il nostro alloggio di oggi si trova vicino ad un campo beduino e ne imita le forme: dormiamo quindi in due tende scure affiancate, aggettanti sul burrone. Il Papà è felicissimo: il panorama è sulle rocce scavate da millenni di erosione. Felici sono anche i bambini, perché dormire nella tenda beduina è un’esperienza che ancora ci mancava; e poco importa se per andare in bagno bisogna camminare per 50 metri negli sterpi. Quanto a me, indosso un sorriso di plastica e affronto due grandi paure; la prima: l’altopiano è spazzato dal vento, che adesso sta soffiando forte. Le tende sono piene di buchi. Si prospetta una notte di spifferi; seconda (e peggiore) paura: quest’ambiente mi sembra l’ideale per le cimici; mi si stanno quindi risvegliando i peggiori terrori pellegrini del Cammino di Santiago.
Ho ancora un paio d’ore per ostentare la mia serenità da viaggiatrice intrepida e nel frattempo ripenso alla giornata: oggi siamo andati a camminare nella riserva di Dana. Negli ultimi anni, in Giordania, sono state create alcune riserve naturali che hanno lo scopo di preservare la biodiversità; in alcuni di questi parchi vengono reintrodotte specie animali minacciate, come l’orice (che abbiamo visto a Shaumari); in tutti viene incentivato il lavoro degli abitanti, soprattutto le donne, che producono manufatti artigianali. Qui a Dana ci sono la lavorazione dell’argento e l’essiccazione delle spezie. 
L’ambiente naturale, invece, è caratterizzato da una forte erosione, che rende particolarmente suggestivo il paesaggio arido. La riserva ha un campo base, a cui si arriva solo con navette (si tratta in effetti del cassone di un camion, che i bambini appezzano moltissimo) e dai cui partono diversi sentieri. Ne scegliamo uno per il mattino e uno per il pomeriggio. Ammiriamo i paesaggi lunari ed esploriamo le grotte delle montagne intorno. Avvistiamo l'agama del Sinai, una spettacolare lucertola blu. Il Piccolo raccoglie bastoni di tutte le dimensioni, con i quali gioca alla guerra, e riesce a camminare per circa due ore senza storie. Questo costituisce un’interessante novità, perché fin ad oggi a casa abbiamo usato il passeggino da trekking, che forse ora potremo mandare in pensione. Fra un percorso e l’altro, facciamo sosta al campo base per spuntino e pisolino sotto la tenda beduina. Il Piccolo ormai ha imparato ad addormentarsi ovunque. Mentre la Grande e la Media finiscono il pranzo a base di pane con olio e spezie, lui si stende su un materasso. Chiede baci e carezze, poi dorme. 

venerdì 26 luglio 2019

i castelli di harry

Dana
Oggi la Grande e la Media si sono ammutinate. Quando siamo arrivati di fronte al castello di Erode, vedendo la salita sotto il sole che avrebbero dovuto percorrere fino alla cima, in un silenzioso accordo sono rientrate in macchina ed hanno estratto con ostentazione i loro libri. Quindi sono rimaste sotto un grande ulivo a leggere, mentre noi, trascinando il Piccolo (che non è venuto esattamente di sua spontanea volontà) ci siamo arrampicati fin sulla sommità della collina. Ne valeva la pena non tanto per le rovine (che non sono ben conservate come molte altre che abbiamo visto) ma per il paesaggio mozzafiato (su una serie di alture bruciate dal sole, a picco sul Mar Morto) e per la leggenda che avvolge il luogo: si narra che qui la bellissima Salomé abbia ballato per Erode. Lui, ammaliato, le disse che avrebbe potuto chiedergli qualsiasi cosa desiderasse. Lei volle la testa di Giovanni Battista, che pare sia stato decapitato in una delle molte grotte subito al di sotto del castello, oggi usate dai pastori come ricovero per le capre. Mi domando, tra l’altro, cosa mai mangino le capre qui, visto che non si vede nessun’erba, nemmeno un cespuglio, solo qualche ulivo e cardi rinsecchiti. 
A parte l’ammutinamento di fronte alla salita, i castelli di solito ci entusiasmano: la Media, immersa in pieno nella fase di Harry Potter, cerca le somiglianze fra le fortezze che vediamo e Hogwarts, dove i giovani maghi ricevono la loro formazione. La rocca di Karak, che abbiamo visitato oggi, ha talmente tante stanze e corridoi infilati l’uno nell’altro che le scale sembrano cambiare posizione, come succede a Hogwarts. Ma fino a questo momento il castello che più ha colpito la Media è stato quello di Ajloun, perché era una base di volo per i piccioni viaggiatori. Quando ha sentito questo, a lei è sembrato di veder volare Edvige, il gufo addomesticato che porta i messaggi al giovane Harry. E si sono moltiplicate le richieste di acquisto dei gadget di Harry Potter, primo fra tutti la bacchetta magica. A questo penseremo al rientro (scusa che al momento mi consente di cavarmela in molte situazioni spinose) e per intanto la Media lascia volare l’immaginazione e percorre in lungo e in largo i castelli alla ricerca di ogni feritoia. A Karak, divenuto tristemente famoso per un attacco di fondamentalisti islamici che ha provocato dieci morti tre anni fa, approfitto per raccontare la storia delle crociate, aggiungendo citazioni dalla Gerusalemme Liberata, una delle mie opere preferite in assoluto. L’effetto è quello di far fuggire i tre quinti della famiglia: solo la Grande mi dà soddisfazione e continua a chiedermi come sia possibile definire “santa” una guerra, come sia possibile definire “pietose” le armi. Domande di cui ovviamente non conosco la risposta, ma forse l’importante è avere un’occasione per parlarne. 
In serata, e non senza fatica (cominciamo a pensare che il nostro navigatore gps sia tarocco, visto che più di una volta ci ha portato fuori strada) arriviamo al villaggio di Dama, tutto costruito nella pietra e a pochi passi da una riserva naturale. Le case sono talmente aggrappate l’una all’altra che sembra di stare ancora dentro un castello. Troviamo una pensione, chiediamo una stanza per quattro. Il titolare ce la mostra, ma il Papà non è convinto, vorrebbe la vista sulla valle. Ci allontaniamo alla ricerca di qualcos’altro, ma l’alternativa - un lodge di lusso con vista mozzafiato - è davvero molto cara. Torniamo quindi sui nostri passi (i bambini nel frattempo sono rimasti in piazza, vicino alla moschea, con un gruppo di coetanei e una cucciolata di cani randagi) e annunciamo al titolare della pensione che prenderemo la camera. A questo punto lui fa l’offeso: non ha gradito il fatto che siamo andati a vedere altro; dice di non sapere se la stanza sia ancora disponibile. Vado su tutte le furie e mi volto di nuovo verso l’auto, decisa a mollare tutto; per fortuna - giacché altrimenti dovremmo vagare nella notte privi di alloggio - il Papà mi convince ad accettare le scuse del titolare. Questa volta non abbiamo incontrato una persona simpatica, al contrario della maggior parte dei giordani, che sono gentilissimi, ma quello che conta è avere un posto per dormire. Ci fermiamo in questa piccola pensione. La camera ha una lampadina minuscola, ci sono zanzare e scarafaggi. Ma prima di dormire posso stare un po’ seduta sotto le stelle, nella terrazza circondata di gelsomini. È sempre stato il mio fiore preferito. 

giovedì 25 luglio 2019

ovunque festa

Madaba
Mio nonno, da cui il Piccolo prende il nome, era per la sicura attribuzione dei giocattoli in base al sesso; disapprovava le mie gare di trottole coi bambini del cortile, e mai avrebbe regalato una bambola a mio fratello. Ci ho pensato oggi, quando la nostra ricerca di un giocattolo per il Piccolo si è conclusa con la versione giordana delle protagoniste di Frozen: due bambole di Elsa e Anna con i costumi tradizionali giordani, ovviamente vestite dalla testa ai piedi e con tanto di velo. Grande soddisfazione di tutta la Famiglia in cammino. D’altra parte, e per compensare lo sciagurato poco virile acquisto, abbiamo aggiunto poco dopo un’automobile bianca, che emette un suoni di sirena spaccatimpani, ma di questo mi sono accorta dopo. Il titolare del negozio di giocattoli la pensa evidentemente come mio nonno: quando gli ho detto che avrei fatto un acquisto per il Piccolo, sperando in una busta di animali, sono stata immediatamente condotta al solito reparto “mitragliatori automatici e fucili di precisione”. Il Piccolo, per fortuna, è stato attratto dal modellino di auto della Polizia. È strano a dirsi, ma subisce il fascino dei mezzi delle forze dell’ordine; uno potrebbe dire che è un amante delle regole, se l’evidenza sperimentale non dimostrasse esattamente il contrario. Mi interrogherò con calma su questo problema. Intanto ho messo a tacere la coscienza (il Piccolo possiede ora due bamboline e una macchinina, il che per un viaggio è una dotazione di tutto rispetto) e sono anche sollevata rispetto alla questione del cibo: finalmente anche il minore della famiglia si è lasciato andare. Ha optato per la sopravvivenza e quindi si adatta a mangiare quel che trova, in quantità paragonabili a quelle che assume a casa: credo che alla nostra pensione si siano pentiti dello sconto sui suoi pasti, poiché oggi a colazione ha divorato quattro fette di torta, prima che io lo bloccassi preoccupandomi per la sua glicemia. Non che abbia dimenticato la pasta: a cena, in un ristorante ricavato dai sotterranei a fianco alla chiesa di San Giovanni Battista, si è rimpinzato con i peggiori spaghetti al ragù della storia. Io e il Papà siamo riusciti a non inorridire e a condividere un ottimo hummus, che qui si mangia anche a colazione: stiamo assumendo più ceci in questi giorni di quanto non avvenga in tutto il resto dell’anno. 
Dedichiamo la giornata a visitare Madaba, che oggi è tutta in festa: è periodo di matrimoni, sia per i musulmani sia per i cristiani (c’è una grossa comunità ortodossa, e infatti accanto ai minareti svettano numerose croci), e ovviamente nel mondo arabo non esiste sposalizio senza un magnifico gigantesco chiasso, a prescindere dalla religione. Non solo: oggi sono usciti i risultati degli esami di Stato; alcune facoltà, come ad esempio Medicina, sono riservate a chi ha ottenuto un punteggio molto alto; per questo abbiamo visto fuochi d’artificio fin dalla mattinata: qualcuno festeggiava, sotto il sole alto, l’accesso ai sogni del proprio figlio. Quindi, fra matrimoni e diplomi, oggi Madaba era in subbuglio: musica, feste, botti ovunque. Fino a poco tempo fa - ci spiegava il custode di una chiesa - la consuetudine preferita era quella di sparare in aria con armi da fuoco. Ma poi qualcuno ci ha lasciato la pelle, e quindi le pistole sono state bandite. 
Di ritorno dal ristorante ci imbattiamo in una festa privata, con musica araba a volume altissimo: non sappiamo cosa si festeggi, ma io e il Piccolo iniziamo a girare vorticosamente sul terreno impolverato: fra le altre cose, ha ereditato la mia passione per il ballo. 

mercoledì 24 luglio 2019

galleggiando

Madaba
Pare che i fanghi del Mar Morto ringiovaniscano la pelle: il Piccolo ritiene probabilmente di averne bisogno, visto l’impegno che mette nello spalmarsi. Prende il fango a piene mani, lo passa su tutto il corpo con scrupolosa pazienza, poi controlla che non sia rimasto nemmeno un buco. Quindi si aggira per la spiaggia, nero come la pece, magro e scattante che sembra un ragnetto. Quando il fango è secco, si sciacqua e ricomincia. Credo sia la prima volta che gli vedo fare qualcosa esattamente come gli è stato spiegato, salvo il fatto che salta il passaggio intermedio, ovvero il primo risciacquo in acqua salatissima, e corre direttamente sotto la doccia. 
Siamo nel punto più basso della Terra, oltre 400 metri sotto il livello del mare. Il Mar Morto ha un livello di salinità pazzesco, e se si ha il coraggio di entrare in acqua si riesce a galleggiare in posizioni incredibili: con le mani e i piedi fuori dall’acqua, oppure appallottolati su se stessi. I turisti giapponesi vanno matti per la foto mentre leggono il giornale facendo il morto a galla: sono tutti i fila per fare lo stesso scatto. Un po’ di coraggio, però, per tuffarsi ci vuole: se si ha sul corpo anche il più piccolo graffio, anche un graffio che non si sapeva di avere, questo a contatto col sale reagisce facendo un male tremendo. Il Piccolo si è goduto un primo bagno (il galleggiamento senza braccioli per lui è ancora un piacere inesplorato), ma poi gli è arrivata un po’ d’acqua in bocca: il bruciore è stato talmente forte da convincerlo a uscire di corsa, senza più entrare. Allo stesso modo la Media: il sale sulla pelle le dà fastidio al punto che preferisce stare sulla spiaggia. Vicino all’acqua ci sono incrostazioni salate e cristalli di sale, che raccoglie con l’intenzione di regalarli agli amici in Italia. La Grande, invece, regge benissimo il sale e quindi passa dalle evoluzioni in acqua al trattamento di bellezza, alla doccia. Ci sono più di quaranta gradi, ma in spiaggia le temperature alte si sopportano meglio. Quindi passiamo la giornata ad infangarci ripetutamente, sciacquarci, infangarci di nuovo. Rimaniamo finché il sole non scompare dietro le colline israeliane, dall’altra parte del mare, e gli addetti del resort (sul Mar Morto di fatto no c’è modo di fare il bagno, se non pagando l’ingresso ad una spiaggia provata) ci fa vistosamente segno di andarcene. 
In mattinata, invece, siamo stati al sito del battesimo di Cristo. Il Giordano in estate è un fiume davvero povero, ma nei quattro metri della sua larghezza si incontrano due mondi: da un lato la Giordania, dall’altro Israele. Sulla riva opposta alla nostra, una comunità si sta battezzando, immergendosi completamente nel fiume. Il sacerdote prende i fedeli uno per uno e li mette sott’acqua. Gli altri, nel frattempo, scattano foto e ballano. 

martedì 23 luglio 2019

la bella lavanderina

Madaba
Mi sono formata sul Cammino di Santiago: ormai il mio stile di viaggio è la leggerezza; pochissimi vestiti, un borsone unico per tutti, inclusi beauty-case, ciabatte di gomma e detersivo per lavare. Anzi, non di solo detersivo si tratta, ma di un diabolico kit comprendente anche filo per stendere, mollette, tappo universale per lavandino di qualsiasi albergo. Il prezzo della leggerezza è ovviamente mantenere ritmi serrati di lavaggio, e qui entrano in gioco le difficoltà: perché se sul Cammino di Santiago questo era lo stile obbligatorio per tutti, e quindi ogni struttura era attrezzata con lavanderia e stenditoio al sole, in altri viaggi la faccenda si complica, e qui la Mamma in cammino deve tirar fuori tutta la sua inventiva, in vero non molta. Oggi, per esempio, ho teso il mio filo elastico al di sopra del letto matrimoniale, nella stanza che abbiamo trovato a buon prezzo; io e il Papà dormiremo quindi al di sotto dei nostri pantaloni bagnati, e speriamo che qualche goccia gelida non ci svegli. Sono questi, comunque, i momenti in cui mi sento campionessa nel problem solving.
Siamo nella zona del Mar Morto, dopo essere scesi verso sud lungo la valle del Giordano. Oggi situazione più tranquilla sui check point, e l’attraversamento più difficile è stato quello di un mercato di paese: tutti passavano ovunque, senza minimamente preoccuparsi di essere su un’arteria stradale importante. Mi era anche passato per la testa di comprare qualcosa per il Piccolo, che qui non ha nemmeno un giocattolo. A casa, uno dei suoi passatempi del momento è costruire fattorie con gli animaletti di plastica e quindi avrei voluto una busta di animali. Le bancarelle, però, esponevano soltanto bambolotti dai capelli fluorescenti o gli onnipresenti fucili da cecchino: non me la sono sentita e ho ripiegato su qualche banana. In mancanza d’altro, per il momento continuerà a distruggere tutto quello che trova, cosa che in effetti è comunque in linea con la sua personalità. La Grande e la Media giocano invece con la versione giordana del Monopoli, in cui al posto di Via dei Giardini è possibile comprare Amman o Pella, il sito romano che oggi abbiamo visitato; Pella, di cui purtroppo rimane poco, era tra le città della cosiddetta Decapoli, a cui i Romani avevano concesso una forte autonomia, riconoscendole come alleati fidati. Nel pomeriggio siamo invece arrivati a Madaba. È qui che, secondo il racconto della Bibbia, Mosè ha fatto sgorgare una fonte dalla roccia, e poi è riuscito a vedere la terra promessa - senza però arrivarci - dall’alto di un colle. Oggi in quel punto sorge un santuario francescano e si gode in effetti di una vista magnifica, che arriva fino al Mar Morto. Sentiamo il vento caldissimo, ci concediamo un succo di frutta e penso che domani dovrò svegliarmi presto: sono rimasta indietro, ho ancora vestiti da lavare. 

lunedì 22 luglio 2019

dov'è la casa, cos'è la casa

North Shuma
La signora Iman è bellissima. È l’anima della casa, quattro volte madre, cura perfino un enorme giardino di fichi, limoni e melograni. Ha steccato la zampa alla gattina di casa, che se l’è rotta. Ha un lavoro a scuola. Eppure sembra fare tutto con grazia e con calma. Il che suscita un po’ l’invidia della Mamma in cammino: in Italia io mi vedo sempre di corsa, indaffarata, imperfetta e nervosa. Oltre al fatto che non so nemmeno friggere un uovo, mente lei cucina divinamente, il che già basterebbe a farmi sentire in soggezione. Si prende il tempo per sedere a colazione con noi e per spiegarci quello che ha preparato; ci insegna come mangiare, si mette d’impegno per imboccare il Piccolo (che ancora sente la mancanza della pasta e quindi fa un po’ fatica col cibo - la Grande e la Media, per fortuna, si sono sbloccate). Falafel da prendere col pane e intingere nell’hummus. Polpette di yogurt sott’olio. Pane appena sfornato da bagnare nell’olio e poi passare negli aromi, ovviamente tutti raccolti ed essiccati da lei. Evidentemente Iman è madre d’istinto, perché anche a noi continua a preparare e a passare bocconi; ci guarda con una certa comprensione e immagino abbia deciso che siamo tutti troppo magri. 
- Nel mio lavoro a scuola - dice - cerco di risolvere i conflitti dei bambini…
Io e il Papà ci guardiamo. Parte lui: - Ah, perfetto - ribatte un po' scherzando e un po' no - i nostri figli sono in conflitto continuo. Hai qualche suggerimento?
Lei ride di gusto: - Tutti i bambini litigano… 
Si aggiusta il velo azzurro. Ci salutiamo con una foto davanti a casa ed è di nuovo ora di partire. La Media e il Piccolo fanno a botte sul sedile posteriore. Percorriamo per un tratto la strada della valle del Giordano, proprio sul confine con Israele. Un po’ di tensione si avverte: passiamo da un posto di blocco dove i militari ci controllano i passaporti; sentiamo ripetuti colpi di fucile e prendiamo anche un po’ paura prima di renderci conto che c’è un poligono di tiro proprio accanto alla strada. È una questione complicata, quella di Israele. Proviamo a spiegarla alle bambine, ma ho l’impressione che appaia loro come molto lontana. Ripensano, invece, ai campi profughi vicino ai quali siamo passati l’altro giorno. Compriamo l’uva ad un banchetto lungo la strada. Ci fermiamo a mangiarla vicino ad un frantoio antico, il più antico della Giordania. Nel frattempo immaginiamo come possa essere dover correre improvvisamente lontano dalla propria vita. E abbandonare gli amici, la scuola, lasciare tutto in casa, e poi lasciare la casa. I campi che abbiamo visto ci sembravano in ordine (chi può dirlo da lontano?) ma si tratta comunque di vivere sotto una tenda. Prospettive zero. Il sogno dell’Europa, forse. 
Questa sera la nostra casa è una stanza con vista sulla valle e sul bacino artificiale subito sotto. Il proprietario, con cui la Grande gioca a ping pong, è un ex ufficiale dell’esercito giordano. Non era la mia vocazione - racconta - ho una laurea in interior design, ma mio padre ha insistito tanto… a 40 anni ero già colonnello, ma dopo poco mi sono congedato. Ho passato la vita ad allenarmi per una guerra che per fortuna non è mai scoppiata. 
Terminiamo la giornata a Umm Qais, un sito archeologico in cima ad una collina da cui si vedono la Siria, Israele, le alture del Golan, il lago di Tiberiade. Ceniamo con vista sulle rovine romane. Al ritorno non riusciamo a fare a meno di fermarci in uno sgangherato luna park di paese. Sembrano giostre di cinquant’anni fa, ma i bambini si divertono un mondo. Saltano sul tappeto elastico, dondolano tenendo le braccia alzate sulla nave. Uno dei gestori ci regala qualche biglietto: Benvenuti in Giordania dice. 

domenica 21 luglio 2019

un'altra piccola famiglia

Ajloun
La Famiglia in Cammino, come se non fosse già abbastanza numerosa, ama l’incontro con altre famiglie: stasera dormiamo in una casa privata. I proprietari, che si siedono a cena con noi, ci ricordano con orgoglio che il loro è il primo homestay della Giordania e poi parliamo delle rispettive vite: la signora Iman, che è peraltro un’ottima cuoca, non solo segue l’ospitalità di casa, ma lavora come psicologa nella scuola del villaggio. È anche mamma di quattro figli, dai quattordici ai sei anni: siamo una piccola famiglia - aggiunge con un filo di rammarico - una volta la gente aveva 12, 15 figli, ma oggi la vita è diventata più cara, è difficile mantenere molti bambini…
Il marito, che aiuta nelle faccende di casa, lavora in municipio e come guida sui sentieri di montagna. Ci scambiamo informazioni sui sistemi scolastici italiano e giordano (la Grande è fierissima di spiegare il funzionamento del progetto bilingue che lei e la Media frequentano) mentre il cortile diventa una specie di baraonda: a parte la figlia maggiore di nostri ospiti, tutti gli altri si lanciano a giocare insieme, riuscendo, misteriosamente in contemporanea, a sfrecciare in bicicletta a velocità folle fin sul terrazzo, a tirare pallonate ovunque, a rincorrere i poveri gatti di casa, che ben presto si pentono di essere venuti alla ricerca degli avanzi. 
Siamo reduci da lunghe esplorazioni archeologiche: ieri abbiamo visitato la città abbandonata di Umm al Jimal, che i romani avevano trasformato in un avamposto per fronteggiare le tribù della zona. Il sito, che è tutto costruito in basalto (quindi appare nero), conta circa 130 edifici, alti da uno a tre piani, alcune cisterne e una quindicina di luoghi sacri. È interessante anche il tragitto per arrivarci, perché siamo praticamente al confine con la Siria e quindi lungo la strada passiamo vicino ad alcuni campi profughi: per i bambini è una visione abbastanza impressionate. Parliamo con loro della guerra; chissà se capiscono, chissà se qualcuno capisce mai. 
Questa mattina, invece, abbiamo visitato la “Pompei del Medio Oriente”; così sono soprannominate le rovine romane di Jerash: percorriamo uno spettacolare Cardo massimo, tutto fiancheggiato da colonne, la maggior parte delle quali ancora in piedi; visitiamo i teatri, i templi di Artemide e di Zeus, il foro; per una volta i minorenni non fanno troppe storie e camminano sotto il sole quasi di buon grado; l’unico pericolo è costituito dal Piccolo, che si arma di un lungo bastone e lo usa per sferzare l’aria in tutte le direzioni, gridando di soddisfazione. Il gelato all’uscita è orrido e caro, ma se lo sono meritato. 

sabato 20 luglio 2019

animali nel deserto

Jerash
Il Piccolo si ostina a salutarle con ciao, pecorelle! oltre a  grandi gesti delle braccia. In realtà, quelle che vediamo sono orici d’Arabia, con lunghe corna e manto bianco. Ci troviamo nella riserva naturale di Shaumari, in cui questa specie viene reintrodotta dopo il pericolo di estinzione, per la caccia sconsiderata. La riserva ha una superficie di circa 20 chilometri quadrati ed è in zona semi-desertica; si può visitare soltanto noleggiando un fuoristrada autorizzato del parco, con autista; non ci sono strade e bisogna seguire solo alcuni percorsi, per non spaventare gli animali. Nella zona sono presenti anche lupi selvatici e, fino a tre anni fa, iene (come la mamma quando si arrabbia! interviene sempre il Piccolo, a rischio di essere incenerito dal mio sguardo - sguardo da iena), ma i carnivori escono solo la notte. Invece, abbiamo la fortuna di avvistare anche le altre specie che vengono reintrodotte gradualmente nella riserva: la gazzella dorcade, l’ubara (un uccello del deserto che ha rischiato l’estinzione perché veniva usato per alimentare i falchi da caccia - la falconeria adesso è illegale in Giordania, ma ancora piuttosto diffusa) e anche l’onagro persiano, un asino selvatico estremamente schivo: è un vero colpo di fortuna avvistarne un branco che fugge spaventato al nostro arrivo. 
Oggi non ci sono altri visitatori oltre a noi, e quindi ci godiamo il giro in fuoristrada (un’auto alta, scoperta, che fa impazzire di gioia i bambini); la guida non ha nessuna fretta, risponde a tutte le nostre domande e ci fa perfino assaggiare le erbe del deserto di cui si nutrono le orici: pare che siano commestibili anche per l’uomo. Almeno lo spero, visto che la Grande, la Media e il Piccolo hanno trangugiato con trasporto una decina di queste foglie raccolte direttamente da terra; una delle piante, peraltro, ha un curioso sapore salato, tanto che si usa come condimento. 
Poco lontano c’è anche la riserva delle paludi di Azraq, che abbiamo visitato ieri sera; incredibile a dirsi, in quest’immensa distesa di sabbia e sassi sorge anche una delle oasi più grandi della Giordania: su quattro bicchieri d’acqua che si bevono ad Amman, uno proviene da Azraq. La palude, che si visita a piedi su apposite passerelle, ospita numerosi animali; purtroppo non riusciamo ad avvistare i bufali d’acqua, ma vediamo qualche airone, molti pesci, un grande granchio e alcune bisce d’acqua, che suscitano lo stupore dei bambini, anche perché le passerelle si trovano pochi centimetri sopra l superficie e quindi si ha l’impressione di poter toccare gli animali; cosa che ovviamente il Piccolo tenta più volte di fare, e io suscito il suo disappunto quando lo afferro per la maglietta evitandogli un bagno nel fango: 
- Ma io volevo prendere il serpenteeeeee!!! protesta lui a gran voce
- Amore, il serpente deve andare dalla sua mamma, e tu farai meglio ad ascoltare la tua…
- Mamma, ma perché il serpente aveva il pancino grosso?
- Probabilmente aveva mangiato un topolino…
Faccio di nuovo per tirarlo, mi sono innervosita e ho paura che si butti in acqua. Si blocca e mi dice: - Mamma, oggi è il giorno più bello della mia vita.

venerdì 19 luglio 2019

attraversando (a tutto volume)

Azraq
Attraversare il deserto, una piatta distesa di terra e rocce (qui siamo vicini ai confini con l’Iraq e l’Arabia Saudita) è stato niente in confronto alla vera avventura di oggi: raggiungere l’ufficio del noleggio dell’auto, dalla parte opposta di Amman rispetto al nostro alloggio. Dopo che i primi due tassisti hanno rifiutato di portarci, perché nessuno ha idea di dove si trovi (o forse tutti hanno paura delle dimensioni dei bagagli), il terzo accetta la nostra folle proposta: trasportarci senza saper bene dove, mentre io siedo al suo fianco (posto normalmente riservato ai maschi) e traduco le indicazioni del nostro navigatore gps in arabo. Ovviamente il pilota di questa mattina non conosce altre lingue. Detta così sembra facile, ma bisogna considerare che:
- Amman ha circa quattro milioni di abitanti: cercare un ufficio senza saper bene dove si trovi equivale ad entrare nel famoso pagliaio e pretendere di trovare l’ago
il nostro navigatore non è aggiornato e non riconosce l’indirizzo esatto; speriamo almeno che ci porti non troppo lontan
- il mio arabo è parecchio arrugginito, e ho francamente paura che non mi vengano le parole giuste
Mentre io e il Papà già immaginiamo un futuro a vagare in eterno per le strade di Amman, i bambini ovviamente prendono la cosa con spirito e attaccano a ripetere ad alta voce qualcuna delle parole che dico, spesso a modo loro, sempre a volume notevole. Il tassista, nel frattempo, non ritiene necessario abbassare la musica araba che pompa a tutto volume, e in breve siamo una specie di auto di matti, con musica e gente che dice cose a caso nella speranza di arrivare da qualche parte. In tutto questo non solo dobbiamo trovare l’autonoleggio, ma anche arrivare puntuali all’appuntamento: oggi è venerdì, giorno festivo per i musulmani, quindi l’ufficio non è aperto, ma ci aspetta solo all’orario concordato. Poi tutti saranno alla moschea e nessuno potrà darci le chiavi dell’auto. 
Io stessa non avrei scommesso sulla riuscita dell’impresa. Eppure arriviamo, sgangherati come al solito e in preda alle risate. Carichiamo il bagaglio nell’auto a noleggio, visitiamo il museo dei bambini (enorme e pieno di installazioni divertenti, tra cui una simulazione di pilotaggio di aereo: Il Piccolo si cala perfettamente nel suo recente sogno di diventare comandante, e può indossare anche l’uniforme), in seguito ci dirigiamo verso est; lungo la strada visitiamo due affascinanti castelli nel deserto: il primo è Qasr Kharana, un enorme edificio omayyade di cui non si conosce l’esatta destinazione; era probabilmente un palazzo di rappresentanza che i sovrani usavano per incontrare i dignitari beduini; la Grande, la Media e il Piccolo si divergono a passare di stanza in stanza: è come un labirinto con mille camere, corridoi e grosse mura. Il secondo è Quasyr Amra, dichiarato dall’Unesco patrimonio dell’umanità; è un antico hammam che oggi è rimasto completamente isolato, ma che all’epoca della costruzione (sempre ottavo secolo) faceva parte di un complesso molto più vasto, con caravanserraglio e pozzo. La straordinaria particolarità è che l’interno di questo hammam è completamente affrescato con opere molto realistiche: si vedono addirittura alcune donne nude che si lavano, il che in un Paese musulmano è più unico che raro. C’è un planetario, scene di caccia, perfino il Negus. Arriviamo, ormai nel tardo pomeriggio e con temperature pazzesche, ad Azraq, luogo di confine e da sempre crocevia di chissà che traffici. L’edificio in cui dormiamo stanotte, riadattato dal governo (il sito è di interesse naturalistico per la conservazione della biodiversità), era in origine un ospedale militare inglese degli anni ’40. Siamo in un caseggiato in mezzo al deserto. 

giovedì 18 luglio 2019

però ci piace

Amman
Io e il Papà siamo d’accordo: fra le città arabe che abbiamo visitato, Amman è quella esteticamente più brutta. Non ha una piazza fantasmagorica come Jemaa el Fna a Marrakech, né il mercato incredibile di Aleppo (quando Aleppo esisteva, ahimè), per non parlare degli edifici pazzeschi di Sana’a, che aveva fatto sognare anche Pasolini. E quando ci penso mi si stringe il cuore, per Pasolini e per Sana'a. Eppure sarebbe ingiusto dire che Amman è una brutta città. Le sue strade congestionate hanno il fascino dell’impossibile traffico arabo, i banchetti della frutta per strada ci deliziano, e andando nelle strade giuste troviamo piccole gallerie d’arte, locali vivaci, rovine spettacolari. 
Oggi la nostra giornata inizia al teatro romano, ancora perfettamente integro: risale il fianco di uno dei colli cittadini, ha seimila posti e le gradinate sembrano non finire più. Il Piccolo adora arrampicarsi sugli spalti (rischiando ovviamente l’osso del collo, ma spesso la Media è disponibile a scortarlo), la Grande mi chiede spiegazioni sugli spettacoli romani. A seguire visitiamo il Diwan del Duca, un appartamento di sette stanze restaurato da un magnate locale e donato alla cittadinanza come museo. Il Piccolo lo definisce incantevole. A me piace soprattutto affacciarmi dal balcone su Hashemi, la via sottostante, piena di piccoli negozi che vendono un po’ di tutto: ci sono banchetti di medicine tradizionali, intimo sexy, gioielli in oro. La Grande adora il profumo delle spezie, la Media rimane affascinata dai limoni essiccati. Il Piccolo punta una bancarella di giocattoli e chiede insistentemente un fucile da guerra, più alto di lui e munito di mirino. Non ci sentiamo pronti per un figlio stile “american sniper” e quindi passiamo rapidamente oltre. Ci spostiamo alla gigantesca moschea blu, l’unica in cui possono entrare anche i non musulmani; spiego alla Grande e alla Media il senso della preghiera comune dell’Islam, indico la nicchia rivolta alla Mecca. Il Piccolo è colpito soprattutto dalla lunghissima veste nera che devo indossare per entrare nel luogo sacro: La mamma è una strega! grida forte, anche se non mi sembra troppo preoccupato. 
Il mix fantasioso di Amman non è da rivista di architettura, ma ci rendiamo conto che ci piace. La giovane commessa di un negozio ci regala le cartoline, e in tanti vogliono salutare i nostri bambini. Gli arabi sono in media molto cordiali, ma ovviamente le eccezioni esistono: il brivido della giornata ce lo regala il tassista dell’ultima corsa, che cerca di fregarci. Prima sostiene che il tassametro indichi un totale di 28 jod, ma noi abbiamo già capito che è un prezzo improponibile. Io ribatto che il tassametro dice invece 2,8 e gli allungo una banconota da 20. Allora, con aria seccata e approfittando del fatto che nel frattempo sto facendo scendere i bambini, infila rapidamente i soldi in tasca. Quando gli chiedo il resto, mente e dice che gli ho dato un solo jod (i colori delle banconote da 20 e da 1 sono in effetti vagamente simili). A questo punto io e il Papà iniziamo a urlargli contro e riusciamo a farci restituire i nostri soldi. Tutto a posto quindi, ma temo che i bambini si siano spaventati nel sentirci gridare così. Quindi mi volto e chiedo: Avete avuto paura? La Grande e la Media ridono e rispondono quasi in coro: Noooo… noi siamo rimaste a goderci la scena… Lo sappiamo che nessuno può farvi arrabbiare! Proseguiamo il nostro giro, compriamo due magliette in un negozio di giovani artisti. I nostri figli sono sicuri di noi: è un meraviglioso pensiero. 

mercoledì 17 luglio 2019

i falafel del re

Amman
Il cordone ombelicale della pasta è sempre il più difficile da tagliare: nonostante i nostri figli siano ben abituati ai sapori diversi, il primo impatto è ogni volta un trauma. Sul tavolo del ristorante di oggi è rimasto quasi tutto: i migliori hummus e falafel di sempre (crema di ceci e polpette vegetariane), baba ganoush (a base di polpa di melanzana), perfino il pane arabo, che non è troppo diverso dal nostro. Non credo che i miei figli fossero turbati dalla presenza di decine di avventori chiassosi, dal fatto che i tavoli fossero apparecchiati con la plastica o dall’assenza di posate. Temo proprio che fosse banale nostalgia da spaghetti. E pensare che, stando alle leggende metropolitane di Amman, in questo ristorante si vede qualche volta perfino il re di Giordania, quando ha voglia di cibo da strada. La Grande assaggia un falafel solo perché costretta, il Piccolo rimane in piedi sulla sedia, tiene una conferenza sul proprio amico immaginario e si accontenta di qualche fetta di pomodoro; la Media piange lacrime amare sulle proprie braccia, non tocca nulla e continua a lamentarsi per il caldo. Oggi 38 gradi di massima, con un vento che sembrava un enorme asciugacapelli puntato addosso. Non era probabilmente la temperatura ideale per visitare le rovine della cittadella di Amman, che vanno dall’era romana al periodo omayyade. Ci siamo fermati di fronte al tempio di Eracle, di cui rimangono tre colonne altissime, visibili da qualsiasi punto della città. Il tempio era collegato al foro e risale all’epoca dell’imperatore Marco Aurelio. Abbiamo proseguito fino alla cisterna omayyade e la stanza del trono, ma più spettacolare era probabilmente la sala delle udienze, con pianta a croce e sormontata da una cupola. Tutto questo però, i bambini non l’hanno visto. Dopo le foto che li ho obbligati a fare sotto il sole alle colonne del tempio, hanno puntato con decisione l’unico albero di tutto il sito e si sono messi all’ombra. Prepariamo la zuppa del giorno! ha detto il Piccolo, trionfate, raccogliendo sterpi e rametti che frantumava con una pietra, del tutto incurante delle vestigia secolari che aveva intorno. Dopo poco usciamo, abbiamo parecchia strada da percorrere a piedi e il sole è al massimo. Appena fuori dal cancello, incrociamo decine di bambini urlanti. Li avevamo già adocchiati sulla cittadella, sono probabilmente una gita scolastica. Hanno un momento di pausa. Stanno sollevando in cielo decine di aquiloni rosa. 

martedì 16 luglio 2019

l'applauso dell'arrivo

Amman
L’applauso all’atterraggio, che scroscia in pieno stile mediterraneo su tutto l’aereo, ha un effetto determinante. Dopo un capriccio durato un’ora per cercare di togliersi la cintura di sicurezza, e probabile trauma dello sfortunato signore che aveva il posto proprio in mezzo a noi, il Piccolo mi guarda con aria di importanza, ritrovata calma e schiena dritta: Da grande - dice - voglio fare il pilota di aereo
Io sono sollevata per la fine delle urla, mi fa piacere che mio figlio abbia deciso il proprio destino e indugio nella conversazione, anche per dilazionare il prossimo capriccio.
- Davvero, amore? Piloterai tanti aerei grandi come questo?
- Sì. E ti porterò in vacanza in Madagascar.
Per motivi del tutto ignoti, nella mente del Piccolo il Madagascar corrisponde al Paese dei balocchi.  Quando gli chiedo cosa c’è di bello in Madagascar? lui risponde tutto convinto: tanta pasta, camion, ruspe, una cucinetta piena di pentole e il parco giochi.
L’aereo rallenta progressivamente sulla pista, qualcuno già si alza per prendere i bagagli. La Media  tiene stretto il quinto libro della saga di Harry Potter, da cui non si separa un minuto (impensabile infilarlo in valigia tutto solo), la Grande è ormai armata di Kindle: nel bagaglio non ci stavano tutti i libri che è in grado di leggere in un viaggio. Penso fugacemente che sono già passati i tempi in cui gli oggetti irrinunciabili erano i peluche della sera, e torno alla conversazione col Piccolo, che nel frattempo non si è arreso e continua ad armeggiare con la cintura. Sfodero un sorriso da tenera madre e gli chiedo: Ma allora faremo una bella vacanza insieme in Madagascar?
- No - mi risponde lui - io ti farò scendere e me ne tornerò a casa subito, col mio aereo.
Si sono accese le luci, le scalette sono pronte. Siamo in Giordania.