domenica 22 luglio 2018

pezzettino di caucaso

Gergeti-Kazbegi
Il villaggio di Stepantsminda ha due nomi: Stepantsminda, che significa Santo Stefano, è quello che si trova sulle carte geografiche e le indicazioni stradali. Il nome, dato il divieto di culto dell’epoca sovietica, era stato cambiato in Kazbegi,  ricordo di un nobile locale che aveva favorito la conquista russa. Dopo il 1991, raggiunta l’indipendenza, le autorità georgiane hanno deciso di ripristinare il vecchio nome, anche in onore del fatto che qui si troverebbe l’eremo del monaco ortodosso poi divenuto Santo Stefano. Ma il tentativo non ha avuto molto successo, dato che tutti continuano a riferirsi al paese con il nome di Kazbegi. Lo stesso nome ha la vetta che si trova sopra le nostre teste (Gergeti, dove dormiamo, è una frazione di Kazbegi); un maestoso Cinquemila che si conquista partendo proprio da qui. 
Di tutto questo alla Grande, alla Media e al Piccolo probabilmente non importa nulla, ma è la storia che racconto la sera, mentre aspettiamo le nostre zuppe di fagioli e un buonissimo piatto di khinkali, specie di involtini di pasta fatta in casa e carne speziata, specialità georgiana. Per la seconda sera consecutiva ceniamo in un ristorante a conduzione familiare, anzi a conduzione unica: l’insegna luminosa dice “Beba”, che in georgiano significa “nonnina” ed in effetti qui fa tutto la nonnina. La signora avrà ottant’anni, porta una lunga gonna nera e i capelli raccolti in una coda; sorride agli ospiti, riesce a spiegare in qualche modo la proposta del giorno, prende le ordinazioni  su un foglio a quadretti e si infila in cucina. I pasti sono ottimi e costano niente (l’equivalente di quindici euro per una cena abbondante per cinque), ma il rovescio della medaglia è la lunghezza dell’attesa, che supera abbondantemente perfino gli standard locali. Aspettando, allora, ho tutto il tempo di raccontare del principe che ha aiutato i russi; poi parlo di Prometeo, che secondo le leggende locali sarebbe stato incatenato proprio su questi monti, e racconto di Puškin, che è passato da qui nel 1829 attraversando il Caucaso. Sto giusto per iniziare la lettura della “Cavallina storna” (ho sempre con me, tra le altre, l’opera completa di Pascoli. Poveri i miei figli) quando la nonnina appare finalmente coi piatti. La famiglia è particolarmente vorace, perché oggi ha avuto il suo pezzettino di salita caucasica. Partendo dal nostro villaggio, ben prima della vetta a quota cinquemila, c’è una delle chiese più famose della Georgia: la Santa Trinità di Gergeti. Ci si arriva percorrendo due ore di sentiero piuttosto ripido, fino a 2.200 metri. La difficoltà maggiore sta nel fatto che, mentre la Grande e la Media sono più veloci di noi, il Piccolo non è ancora in condizione di scalare montagne, ma non ama stare nello zaino. Noi però lo infiliamo comunque, sperando ogni volta che cambi idea (cosa che puntualmente non avviene). Quindi trascorre il tempo a dimenarsi e scalciare, rischiando ogni momento di far perdere l’equilibrio alla povera madre, con conseguente potenziale caduta nel burrone sottostante. A pochi metri dalla chiesa lo faccio finalmente scendere, ma così è peggio ancora: il Piccolo si imbatte in un folto gruppo di mucche e vitelli, che accarezza a ripetizione con il sostegno della Grande e la Media. Impieghiamo quasi mezz’ora a staccarci e conquistare l’entrata del santuario; i bambini nel frattempo ci guardano storto, con l’aria di chi vorrebbe proprio sapere cosa ci sarà mai di così interessante in una chiesa medievale quando si potrebbe star fuori a ficcare le dita nelle luride narici di un vitello…

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